
di Simeone Pozzini
CHI CONOSCE CARLO GOLDSTEIN sa che potrebbe passare ore ad ascoltarlo parlare di musica senza mai lasciar cadere l’attenzione. La sua capacità dialettica e la sua cultura non solo musicale hanno forgiato un interprete che senza mezzi termini può essere definito completo. Pianista, direttore d’orchestra, autore di saggi musicali. Goldstein è una delle figure di spicco del panorama dei giovani interpreti. Milanese ma triestino d’origine (un’appartenenza che rivendica sempre fino in fondo) è figura nota anche al pubblico di Sky Classica, che gli ha dedicato una puntata della trasmissione “Notevoli”. Già, perché Goldestein, oltre ad aver diretto in molti importanti teatri, sarà nel prossimo gennaio assistente di Zubin Mehta nel Don Giovanni mozartiano, a Valencia. Ascoltarlo dirigere ci porta un mondo “antico” nel quale comunicare è innanzitutto chiarezza ed eleganza. Direttore dal gesto incisivo e viscerale ha da poco debuttato discograficamente con la rivista Amadeus (aprile 2011) interpretando i concerti per pianoforte di Mozart, insieme al solista Andrea Bacchetti e l’Orchestra di Padova e del Veneto. Proprio sull’esperienza della sala di registrazione, che per qualsiasi interprete rappresenta sempre un momento cruciale, inizia la nostra conversazione.
Registrare: lasciare all’eternità la propria visione di un brano che è espressione di un percorso interpretativo in evoluzione. Come è stato per lei registrare questo disco, che rappresenta il suo debutto discografico?
«Da una parte il piacere di affrontare Mozart, che è anche stato, dal punto di vista direttoriale, il primo autore che ho studiato a fondo. Ho trovato una ricorrenza piacevole il fatto di poter debuttare con i suoi “concerti”. Poi certo il piacere di lavorare con l’OPV, che su Mozart ha una storia, un idioma ben acquisito. In particolar modo io ho sempre apprezzato le loro registrazioni mozartiane dei concerti per violino fatte con il mio compianto concittadino di Trieste Franco Gulli: sono per me tra le migliori registrazione mozartiane di sempre. D’altra parte invece tutte le difficoltà inerenti al processo della registrazione vera e propria, ed è questo che forse evocavi nella tua domanda. Sono difficoltà direi insormontabili oggi, cioè legate alla metodologia, alla natura stessa di questa tecnologia digitale, ormai acquisita. Credo addirittura che i tempi e le modalità della registrazione oggi siano ad esempio molto diversi rispetto ai primi anni della stereofonia, gli anni ’50 e ’60. Cioè, una volta ci mettevano tre settimane a registrare una sinfonia di Bruckner, oggi forse tre ore! Io credo che la registrazione permetta di oggettivare il più possibile il proprio pensiero su un autore, sulla sua sonorità di base, sull’articolazione dell’orchestra, sull’equilibrio con il solista, che nei concerti di Mozart è sempre tutto da scoprire. Dall’altra, come dire, dando tale possibilità, ti constringe a definire l’intero processo esecutivo in un modo perentorio, che di per sé non è naturale.»
Certo, capisco, e forse anche in ragione di queste riflessioni interpreti come Celibidache o Richter hanno preferito non affrontare lo studio ma lasciare unicamente interpretazioni live.
«Potremmo forse dire che quest’evoluzione tecnologia ha peggiorato la questione, o meglio, ha reso lo iato tra elementi positivi e negativi ancora più drammatico. Da un lato io non sono del tutto concorde con la demonizzazione dei dischi. Io stesso non posso negare di essermi profondamente formato avendo potuto ascoltare documenti discografici: penso a Bruno Walter, Klemperer, a Furtwangler, musicisti per me decisivi… ma lo stesso Bernstein, che io dal vivo non ho mai sentito…. Arthur Rubinstein, Fischer-Diskau… potrei andare avanti all’infinito. I dischi hanno profondamente formato la mia sensibilità musicale, la mia cultura del repertorio, le mie scelte, dandomi certo un surrogato di quello che quei grandi artisti erano dal vivo. Ma questo surrogato pur qualcosa mi ha dato! L’alternativa sarebbe stata non conoscerli affatto. Qundi io credo nella eccezionale potenza del documento discografico da un punto di vista storico. D’altra parte comprendo benissimo le argomentazioni per esempio di Celibidache, che sottolineava, di fianco a quello che guadagnamo, ciò che perdiamo. E cioè l’esperienza diretta del suono, la sua varietà, la verità del contatto contingente con esso che è irriproducibile.»
Vale a dire anche l’esperienza sociale del concerto?
«Sì. Tale esperienza è profondamente mutata storicamente con l’avvento della tecnologia discografica: anche per chi va ai concerti e li vive ancora attivamente. Il rito del concerto è cambiato: la gente va ai concerti avendo ascoltato i CD, ha determinate aspettative guidate dai CD che ha a casa, le carriere dei musicisti si fanno attraverso la discografia ecc.. Quindi oggettivamente la discografia è un segno acquisito della nostra età musicale che non mi sento di demonizzare ma di cui subiamo indubbiamente anche le contraddizioni.»
Ecco, agli antipodi degli interpreti citati prima c’è Glenn Gould, che attraverso il disco ha ricreato una poetica dell’ascolto e del vivere la musica…
«Il grande merito di Glenn Gould è che egli ha abbracciato, dicamo così, le contraddizioni della discografia come un dato di fatto del proprio tempo, non ha preteso di allontanarla da sé. Le ha abbracciate ha cercato di trasformarle in modo artistico. Il posizionamento del microfono, il missaggio, la sequenza dei titoli da incidere. Tutte cose delle quali i musicisti della generazione precedente alla sua non si occupavano affatto . Emlematico l’atteggiamento di Toscanini che diceva al tecnico “alzi, deve essere più forte” e il tecnico rispondeva “guardi che più forte si rompe la cassa”, e “allora rompi la cassa!” rispondeva Toscanini. Quindi un totale disinteresse per la tecnologia. Ecco invece che un interesse e una conoscenza profonda della tecnologia da parte di GG hanno portato a elaborare gli elementi della tecnologia in modo creativo, in modo vorrei dire musicale. Va detto però che se il gesto di GG è nel suo insieme estremamente artistico e attuale ancor oggi, egli così facendo, dal mio punto di vista, ha legato molti esiti della sua attività discografica all’evoluzione della tecnica, più che all’evoluzione della musica o del gusto musicale. E l’evoluzione della tecnica, notoriamente, è molto veloce. Quindi i dischi di Gould, al netto del genio pianistico e del talento musicale così affascinante, sono figli di quel momento tecnologico; oggi, nell’era del digitale, appaiono davvero molto superati. Leggevo del grande pianista, didatta, critico, scrittore, Charles Rosen. Dopo aver fatto una lunga carriera e aver inciso dischi di Brahms, Debussy, Rachmaninoff e Bartok a un certo punto si trovò davanti discografici che gli dicevano “non sappiamo come venderti! Non sei un beethoveniano” ecc…»
Perché non era uno specialista quindi?
«Esatto: nel mercato entrano logiche che sono solo del mercato e che nulla hanno di musicale. Come diceva Marx? Il mercato, che sia di vacche o di libri, sempre mercato è. Diciamo che sta al peso del solista, alle sue scelte, alla sua responsabilità, saperci indirizzare, saper capire quali sono i compromessi fattibili e quali no, quali sono, molto più semplicemente di così, le cose in cui è a proprio agio e quelle in cui non lo è. Io credo, tornando a Gould, che la sua lezione sia interessante proprio perché suggerisce di non cristallizzare una posizione acquisita ma di abbracciarne invece le potenzialità non ancora espresse. Gould per primo si apre a una dimensione esecutiva semplicemente inesistente, perché intuisce che le rinnovate tecnologie del tempo la prevedono, e quindi per primo la intraprende, giudicando invece morto il concerto, in quanto figlio di “tecnologie superate”; in un certo senso, ‘tecnologie’ anche sociali.»
Come ha trascorso gli anni della sua formazione?
«Gli anni di studio in Conservatorio sono anni a cui si ripensa con un misto di orrore e struggente tenerezza allo stesso tempo! L’ingenuità frammista agli entusiasmi hanno un po’ il sapore di amori adolescenziali in cui c’è un’enorme profusione di inutili energie mal finalizzate, ma allo stesso tempo di molte energie, diciamo così, che alla fine qualcosa producono, per vie traverse. La mia formazione musicale è stata pianistica, non solo nel senso che per anni ho studiato tecnicamente solo il pianoforte, ma soprattutto perché il mio modus cogitandi è stato decisamente pianistico. Lo studio della composizione e della direzione sono stati per me una rinascita musicale. L’amore per il pianoforte è rimasto intatto, pur potendolo coltivare meno ormai. Capisco benissimo Furtwangler che diceva “invidio Chopin ai pianisti”, cioè quel misto di sensualità fisica che allo stesso tempo è teoria che allo stesso tempo è tecnica, ethos musicale. Questo contatto così fisicamente appagante con la musica non si ha dirigendo. D’altra parte il limite di un pianista è la tentazione di tenere tutta la musica sempre per sé. Al pianoforte siamo sempre soli: siamo noi contro tutti, al pianoforte. Siamo noi contro il nostro quarto dito, siamo noi contro il pubblico, siamo noi contro quell’arpeggio drammaticamente difficile, contro quella tacca di metronomo che non raggiungiamo…»
Contro lo strumento che ogni volta è diverso?
«Certo. Il pianoforte stesso è, basta guardarlo, una macchina diabolica. Il violino lo tieni in braccio, è dentro di te, nel tuo movimento. Il pianoforte è lì, un mobile, come se dicesse, “toccami se ne sei capace”. Sei tu che devi fare tutto per entrarci. Dirigere un’orchestra è l’esatto opposto: non suoni niente in prima persona e devi fare tutto per gli atri. La dote principale che il direttore deve avere è l’ascolto. Un ascolto che è dare e ricevere al contempo ovviamente. Un’uscita quindi dal bozzo dell’io del pianista. In questo senso per me lo studio della direzione e gli anni di apprendistato della direzione sono stati molto diversi da quelli pianistici.»
Lei hai diretto spesso all’estero, quali sono le impressioni sull’Italia che hai raccolto rispetto a questo nostro momento storico?
«Attorno all’Italia, al suo patrimonio musicale e ai musicisti italiani, all’estero vi è universale, forte, antico rispetto. Questo è un dato acquisito. Poi c’è l’attualità della vita musicale italiana, che è da più parti guardata con preoccupazione e con crescente scetticismo. Da una parte nel repertorio italiano e nel repertorio lirico in particolar modo gli italiani sono sempre portatori di una verità d’espressione della parola, di una naturalezza del gesto strumentale. Dall’altra l’educazione del musicista italiano di oggi è oggettivamente in calo rispetto a quella di altre realtà formative. E’ sotto gli occhi di tutti. Ciò non riguarda le eccellenze, che rimangono. Riguarda l’insieme delle istituzioni ed è particolarmente avvertibile, ad esempio, nella cultura sinfonica. Nei nostri Enti di formazione non si viene educati all’orchestra. E’ più facile che un violinista si diplomi suonando bene i Capricci di Paganini, piuttosto che abbia suonato in orchestra anche solo tre Sinfonie di Beethoven. All’estero è diverso.»
L’importanza del gesto e la sua variegazione. Qual’è il suo approccio?
«Il gesto del direttore è tanto più bello quanto più è funzionale, tanto più efficace quanto meno rivolto alla musica in senso lato e quanto più ai musicisti che la stanno facendo. Il gesto è certo il frutto della personalità, certo il frutto di alcune convenzioni chironomiche, ma è poi, a monte di tutto ciò, un linguaggio assolutamente intuitivo nella sua manifestazione. Non solo nel senso che ad un gesto irruente difficilemte corrisponderà un pianissimo, ma per il fatto che al di là delle spiegazioni, che nella concertazione il direttore può dare ai musicisti, gli orchestrali fanno musica attraverso dei gesti, ed è un gesto che comunica in modo più diretto ad altri gesti. Al gesto di respirare, al gesto della percussione, corrisponde un gesto direttoriale che lo anticipa, o lo frena, lo tira, che lo lascia, che lo riprende in alcuni momenti. In questo senso i modi per dirigere sono infiniti tecnicamente parlando. Così come i modi di risolvere un problema pianistico sono molti. Noi possiamo dire che esistono alcune regole di base per come mettere la mano… ma forse anche no! Vediamo pianisti che stanno con la mano schiacciata, il pollice basso, e poi la mano va benissimo e il suono è stupendo! Da un punto di vista direttoriale: se un’idea non è chiara in testa il gesto può essere rifinito finché si vuole ma l’idea che non c’è non potrà arrivare. Se l’idea è invece chiara in testa, anche un gesto approssimativo può arrivare al risultato, purché dica ciò che è essenziale dire.»
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Carlo Goldstein, nato a Trieste in una famiglia di musicisti, è tra i giovani direttori d’orchestra emergenti del panorama italiano.
Si è segnalato nelle fasi finali di diversi concorsi internazionali (De Sabata, Cadaques, Pedrotti) e nel 2009 ha vinto il primo premio assoluto all’International Conducting Competition di Graz.
Nelle ultime stagioni ha diretto al Parco della Musica di Roma, al Teatro dal Verme di Milano, Al Teatro Carlo Felice di Genova e nella Sala Verdi del Conservatorio di Milano, per la Società dei Concerti, un concerto con i Berlin Chamber Soloists, in un programma comprendente Verklaerte Nacht di Schönberg. Ha diretto il Divertimento Ensemble, con Alda Caiello solista, in Pierrot Lunaire sempre di Schönberg e Gli Archi del Cherubino all’Aquila, per il concerto di Natale della Società Barattelli, con musiche di Pergolesi, Bach e Galuppi. Ha inoltre diretto l’Orchestra di Padova e del Veneto in un programma mozartiano con il pianista Andrea Bacchetti, effettuando contestualmente una registrazione uscita per la rivista Amadeus nell’aprile 2011. Carlo Goldstein è molto attivo all’estero: ha diretto in Russia orchestre quali la Tomsk Philharmonic Orchestra, la Omsk Philharmonic Orchestra, la Arkhangelsk Chamber Orchestra e in Israele la Ra’anana Symphonette Orchestra di Tel Aviv, dove ha proposto, con il pianista Roberto Prosseda, il Concerto per pianoforte e orchestra n. 3 di Mendelssohn, in prima esecuzione assoluta per quel paese.
Lavora stabilmente al Palau de les arts di Valencia dove ha collaborato quale assistente in titoli come: Elisir d’amore, Boris Godunov, La vida breve e Tosca. Sarà inoltre assistente di Zubin Mehta, sempre a Valencia, per Don Giovanni, nel prossimo gennaio.
Tra gli impegni della prossima stagione si segnalano due concerti con l’Orchestra Regionale della Toscana per l’anniversario lisztiano e un Così fan tutte alla Youth Opera di San Pietroburgo e all’Opera di Atrakhan.
Carlo Goldstein collabora con MDI ensemble, una delle migliori realtà della musica contemporanea in Italia. Con MDI ha collaborato alla realizzazione del CD monografico, prossimamente edito da Ricordi, dedicato al compositore Emanuele Casale e ha diretto delle lezioni-concerto all’Università Statale di Milano dedicate a compositori italiani di oggi.
Diplomatosi in pianoforte sotto la guida della Prof. Giuliana Gulli al Conservatorio Tartini di Trieste, Carlo Goldstein ha proseguito la sua formazione studiando composizione e in seguito completando il corso di direzione d’orchestra all’Accademia internazionale della musica di Milano nella classe del M° Emilio Pomarico. Si è perfezionato poi al Royal College of Music di Londra, a San Pietroburgo e soprattutto al Mozarteum di Salisburgo dove ha studiato per due anni; tra i suoi maestri Peter Eotvos, Jorma Panula, Janos Fuerst, Julius Kalmar e Peter Guelke.
Carlo Goldstein è laureato in Filosofia – Estetica – presso l’Università Statale di Milano e ha all’attivo diverse pubblicazioni di carattere estetologico e storico musicale. È responsabile per la musica classica di Yuval – centro di documentazione sulla musica ebraica in Italia.
Il canale Classica – in onda su Sky – ha realizzato una puntata su di lui nella serie Notevoli, dedicata ai giovani talenti italiani.
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