L’Ensemble Intercontemporain registra alcune opere della compositrice coreana oggi residente a Berlino
di Paolo Tarsi
In un’antica carta sino-coreana l’insieme dei continenti e di tutte le terre emerse sono spinti fino ai limiti estremi del mondo conosciuto al centro del quale si ergono l’impero cinese e, come una sua appendice, la penisola coreana. Accanto a una mitologia costellata di figure pronte a regnare sul paese che era stato loro predestinato – o adempiendo alla volontà diretta dell’Imperatore Celeste – si sviluppa una tradizione musicale altrettanto ricca e ramificata, che non rispecchia soltanto la struttura sociale gerarchizzata della Corea, ma che riflette anche legami spirituali profondi con la cultura cinese, dall’iconografia alla letteratura, dal dinamismo religioso e filosofico fino alla cosmogonia.
Nelle opere di Unsuk Chin rivive il potere quasi sacrale delle donne sciamano – le mudang – insieme alla duttilità forte e spontanea dei musicisti della sua terra, la Corea, capaci di assimilare in profondità pratiche e tecniche musicali provenienti da aree vicine e lontane. In molti dei suoi lavori la compositrice sudcoreana – nata nel 1961 a Seoul, ma residente da tempo a Berlino – segue una sorta di sublimazione tra spirito e materia, per riunire nella dimensione del sogno il reale con l’irreale, declinando i diversi stati della percezione in una singolare sintesi degli opposti. Visioni calligrafiche si riflettono in note-ideogrammi che conquistano gli interstizi multipli tra visibile e invisibile, tra luce e penombra, da cui filtrano colori di una musica che fluttua attraversando un vuoto che non è mai silenzio, formando allo stesso tempo una scultura sonora vivida, inverosimilmente magnifica. Le figure si muovono in un incedere sospeso, fatto di insondabili micro-macro-dimensioni fuse in un insieme organico, all’interno di uno spazio dilatato fino a disintegrarsi.
Spesso, all’astrattezza del linguaggio sonoro della Chin, corrispondono altrettanti riferimenti extramusicali presi a prestito dalla natura, dalla matematica e dalla letteratura. È il caso di Akrostichon-Wortspiel (1991/1993), per soprano e ensemble, su testi tratti da due libri di Michael Ende e Lewis Carroll divenuti celeberrimi – The Neverending Story e Through the Looking-Glass –, in cui i frammenti tratti dalle due opere letterarie sono ridotti a sillabe, particelle di parole che divengono suoni individuali intellegibili, di cui rimane solo il loro significato simbolico. Consonanti e vocali unite in modo casuale, parole lette (e scritte) al contrario, sono l’espressione di un logos interiore che si fa pienamente musica nel suo manifestarsi esplicito, facendo affiorare analogie con i testi ‘muti’ – o fonetici – e il nonsense di alcune pagine ligetiane, Aventures e Nouvelles Aventures in primis.
Benché costruita molto rigorosamente, Fantaisie Mécanique (1994, rev. 1997) riesce a creare l’impressione di una improvvisazione collettiva, di un caos controllato che si apre con una sequenza meccanica di quattro note nei registri più scuri degli strumenti. L’incedere metallico di tromba, trombone, pianoforte e delle percussioni rimanda al ticchettio degli automatismi di Gyula Krúdy, con i cinque strumentisti che convergono in una densa rete poliritmica fino ad annullare la dimensione spazio-temporale. Xi (1997/1998), invece, si sviluppa a partire da piccole cellule musicali la cui metamorfosi è protratta lungo un ampio arco, un respiro da cui i suoni prendono vita creando una sintesi granulare con la componente elettronica della partitura. Infatti, accanto all’Oriente e agli sviluppi delle avanguardie dell’Europa occidentale, nella musica di Unsuk Chin occupa un ruolo centrale l’uso dell’elettronica, volta a generare nuovi ordini di modelli architettonici pulsanti, processi sonori che ricercano la plasticità del suono e le sfumature policrome del colore, in una reciproca interazione tra suoni sintetici e texture strumentale.
Come Xi e Fantaisie mécanique, anche Double Concerto (2002) è stato scritto per l’Ensemble Intercontemporain. Migliaia di colpi come tratti timbrici di precisissime incisioni calligrafiche si scagliano sulla tastiera preparata del pianoforte creando una complessa stratificazione ritmica che attinge dalle sonorità del gamelan balinese, con effetti di lunghi suoni tenuti nell’avanzare ostinato delle percussioni, facendo vibrare nuovi scenari di paesaggi sonori caleidoscopici.
Paolo Tarsi
Unsuk Chin, Xi, Kairos, 2011
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