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Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna sotto la sua direzione hanno inaugurato il primo concerto di un importante progetto dedicato a Schönberg: entro il 2013 esecuzione integrale delle opere del compositore viennese
di Andrea Bellini
Il concerto inaugurale di “The Schoenberg Experience”, progetto multidisciplinare voluto dalla Fondazione Teatro Comunale di Bologna/TCBO in collaborazione con l’Arnold Schönberg Center di Vienna, è stata veramente un’esperienza a tinte forti. Artista dai molti interessi, musicista, pittore, poeta, nonché apprezzato didatta, il progetto punta proprio a valorizzare i molteplici volti di uno dei più importanti artisti ed intellettuali del XX secolo. Progetto ambizioso, come ben descritto nella presentazione di Nicola Sani a corredo del programma della serata, forse unico nel suo genere in Italia, che ha ovviamente al centro la musica del compositore viennese e l’esecuzione dell’opera integrale lungo l’arco del biennio 2011-2013.
Il concerto si apre dunque all’insegna di J.S.Bach, ideale punto di riferimento di Schönberg, da lui stesso definito “il primo compositore delle dodici note” con una trascrizione del preludio-corale “Schmücke Dich, o liebe Seele” BWV 654, datata 1922, che rappresenta una sorta di “cartone preparatorio” alle future opere dodecafoniche ed un avvicinamento al concetto di Klangfarbenmelodie, la melodia di soli timbri. Il tentativo di Schönberg (si tratta di un lavoro che ha valore di studio della tavolozza timbrica) è quello di esaltare la tessitura contrappuntistica affidando a sezioni diverse della grande orchestra (arricchita da percussioni e celesta) le varie frasi tematiche, a volte utilizzando strumenti in “solo” come nel caso del violoncello a cui è affidata la parte del corale, o a piccoli gruppi, come a creare “isole” di suoni. L’esito complessivo non pare sempre efficacissimo, proprio perchè va ad intaccare la forza insita dell’opera bachiana, la compenetrazione delle varie voci in un tutto organico, in cui l’equilibrio formale e il “punto contro punto” sono mezzi e non fini dell’opera, mentre qui si ottiene l’effetto inverso, quello cioè della ricerca e dell’esaltazione timbrica. Esercizio preparatorio, quindi, che nelle Variazioni per orchestra op.31 composte otto anni dopo, si definisce il metodo dodecafonico nella “grande forma” ovvero per un organico imponente.
L’orchestra, guidata con precisione da Lothar Zagrosek, direttore preparato sulla musica delle cosiddette avanguardie del 900, da Nono a Dallapiccola e che inaugurerà la stagione della Fenice 2011-2012 con l’opera Lou Salomè di Giuseppe Sinopoli, sfodera un suono scintillante grazie al quale si coglie al meglio l’assoluta intelligibilità della partitura. Il legame con Bach è doppio, dal punto di vista tematico (il risuonare spesso delle note B-A-C-H come cellula melodica che si trasfigura nel trattamento seriale) ma soprattuto nella concezione armonica, di quella “pantonalità” che il compositore opponeva al concetto, da lui rifiutato con vigore, dell’atonalità (“definire una musica a-tonale è come definire un pittore astratto a-spettrale”).
Il delirio del testo – un sergente tedesco che ordina di massacrare con ogni mezzo un gruppo di prigionieri ebrei a terra – è reso in maniera magnifica dal canto frammentato dell’orchestra
La seconda parte è però quella che incarna un crescendo di emozioni: è “più che fortissima” nell’ascolto di Verlärte Nacht op.4, sicuramente brano più “digeribile” all’ascolto ma che ha in nuce già gli elementi dello Schönberg successivo. Ed è ancora più paradossale, soprattutto davanti a questo capolavoro dalle dimensioni cameristiche anche nella versione per orchestra eseguita ieri, che da solo lo inscrive nell’Olimpo dei Grandi, credere a chi sostiene una sua (presunta) freddezza intellettuale. E’ noto il riferimento letterario (una lirica di Richard Diemel apparsa nel 1891) dove assistiamo al trionfo dell’amore nelle sue molteplici sfumature, dove il dialogo tra i due amanti e le scene naturalistiche sono ben rappresentate in musica; è un sentimento già dalle tinte espressioniste, anche se non ancora accentuate, dove ai momenti di lirismo assoluto si alternano folate di pura passione e pianissimi pieni di nostalgia. La versione orchestrale, pur nel rispetto degli equilibri tra le parti, pecca a mio avviso di quell’intimismo che solo il dialogare fitto tra strumenti soli può garantire. Infatti nell’originale per sestetto (2 violini, 2 viole e 2 violoncelli) ogni strumento ha un proprio ruolo, e dove i “tutti” a volte anche in unisono hanno un evidente nesso testuale. A questa Notte trasfigurata, quasi un’esordio, la musicologia tradizionale si è sbizzarrita ad attribuirne i “padri” putativi (dal Brahms degli inizi, a Wagner e Strauss) ma se ascoltiamo con attenzione le cesure o certe sospensioni tra le varie sezioni del brano (cinque “stanze” come nel testo letterario) ci appare nitido un certo Beethoven, non a caso da lui ammirato alla stregua di tutti i compositori tedeschi. A dispetto di molti, credo che Wagner e Brahms non siano “imitati” da Schönberg, ma addirittura già superati, in quegli accenti, soprattutto nel finale, che fanno intravedere un universo apparentemente gaio e spensierato (la Vienna degli Strauss, quelli dei walzer!) che da lì a poco sarebbe stata demolita dalla catastrofe. E l’emozione arriva, ben giocata dalle tante sfumature dinamiche e ritmiche dell’orchestra, fino alle lacrime, per questo brano che è già molto di più che una “prova d’autore”.
Chiude la magnifica serata il breve ma di impatto “A Survivor from Warzaw” (Un Sopravvissuto di Varsavia), altra composizione molto nota, che immagina il tormento dei prigionieri ebrei nel ghetto omonimo come un invito – da Schönberg agli stessi ebrei – a non dimenticare. Il delirio del testo – un sergente tedesco che ordina di massacrare con ogni mezzo un gruppo di prigionieri ebrei a terra – è reso in maniera magnifica dal canto spezzato dell’orchestra, un latrato quasi, con lo stesso passo con cui muove il recitante, nel cantato-parlato che è in perfetta analogia con la tensione crescente, in un misto di orrore e rabbia, del testo. E un primo spunto di riflessione viene dall’uso dell’inglese, contrapposto ai latrati del militare in tedesco, come fosse il rifiuto o uno straniamento voluto dal compositore, della propria origine. E’ vero anche che egli era già cittadino americano e risiedente negli Stati Uniti, per cui l’inglese era di fatto la sua lingua madre. Ma ecco che, come una scure, cala sulla testa di noi spettatori (ma sarebbe meglio dire piomba) il canto “trascurato per tanti anni” dello Shema Ysroël, il Credo ebraico. Mentre ci si aspetta una pacificazione o una purificazione nell’avvento della preghiera, qui al contrario la tragedia prosegue senza sosta, da una parte il canto fortissimo, quasi un urlo, dei condannati, dall’altro l’orchestra che, incurante, continua il suo agitarsi. Composizione di grande suggestione che ancora oggi ci ammonisce e ci invita alla riflessione.
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