Americana • Europeo di nascita, è stato uno dei migliori interpreti della musica del Nuovo mondo, dove arrivò da ebreo profugo. La musica che lo rende unico è quella che scrisse per il cinema e per il teatro musicale statunitense
di Giampiero Cane
Kurt Weill non nacque negli Stati uniti, ma a Dessau, in Germania, nel marzo del 1900. Ciò non toglie che, pur essendo un europeo della fine del XIX secolo, egli sia anche uno dei migliori interpreti della musica del Nuovo mondo, dove arrivò con la moglie Lotte Lenya, ebreo profugo, nel 1935. Aveva tutte le ragioni del mondo per rigettare il passato in cui era cresciuto, il mondo in cui era stato coinvolto. Era quello dei tedeschi che avevano dato il potere a Hitler, era quello del razzismo nei confronti degli ebrei, era quello degli intellettuali che non capivano la musica, era quello dei musicofili che vivevano di nostalgia per quel passato che annoverava Bach, Beethoven e la prima scuola di Vienna, incapaci di ridere delle scemenze ideologiche di Wagner, una parte esaltati dalla decadenza, gli altri dai valzer, o cotti, come nel caso di Nietzsche, da una fantasia di ebbrezza fatta di tacchi battuti sul piancito, colpi d’anca, capelli neri, vita sessuale libera senza limiti di pudore alcuno, dunque da un desiderio di sofferenza struggente che, pur se in una forma espressiva non ancora sfatta come sarebbe avvenuto con il Festival di Sanremo un mezzo secolo dopo, godeva di un patetico analogo, come racconterà Lili Marlene.
Lui, Kurt Weill, era stato il musicista del sogno di Weimar, ma molto poco gli era stato riconosciuto di fronte agli sperticati elogi rivolti a Brecht. I due avevano creato insieme L’Opera da tre soldi (1928) e Ascesa e decadenza della città di Mahagonny (1930), due dei massimi successi del teatro musicale del Novecento, ma sembrava che il merito dovesse andare al drammaturgo più che non al musicista. Ciò anche se le pagine musicali si erano messe a girare il mondo come hit a sé, mentre a nessun attore credo sia passato per la testa di recitare le parole di Brecht avulse dalla rappresentazione. D’altro canto, mentre Brecht aveva la forza di suggerire col proprio teatro un possibile indirizzo della creatività nel genere, Weill era troppo distante da quel che la musica veniva architettando negli anni Venti per potersi sentire, diciamo, una guida. La collaborazione con Brecht aveva portato a due grandi successi, ma non si poteva farne un genere. La leggerezza narrativa del musicista ebbe però la fortuna d’incontrare Broadway e Hollywood che sembravano, la seconda soprattutto, poter costituire il ground più naturale per accoglierla. Egli dovette però superare il risentimento e rassicurarsi nella nuova identità e nel contesto. Dei numerosi ebrei di prestigio che riuscirono a raggiungere gli Usa, egli fu il primo, se non l’unico, che abbandonò non appena ne fu in grado il tedesco. Assieme alla lingua si lasciò alle spalle tutto quel che era, o gli ricordava, la Germania. Non volle mai fare parte dei rifugiati, dei tedeschi d’America, e lasciò cadere i rapporti con i nostalgici dei “vecchi tempi” del “suolo natio” anche quando si trattava di amici, come Hindemith. Per questo non lo vediamo mai partecipe della vita di quella élite ebreo tedesca che veniva affermandosi e conquistando posizioni di rilievo nel territorio e mercato culturale nord americano. Per questo si oppose anche a riprese dei successi europei, la Dreigroschenoper così come l’Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny.
Del resto la mentalità dei rifugiati tedeschi non li conduceva a un apprezzamento positivo del lavoro di Weill. È probabile che gente come Theodor W. Adorno non potesse pensare al musicista se non come a una “spalla” di Brecht, come a un artista che, lasciato a sé, ad altro non avrebbe pensato che «allo show business americano e a tutta quella gente terribile», come esplicitamente ebbe a dire Otto Klemperer (citato in Douglas Jarman, Kurt Weill, An Illustratyed Biography, Orbis, London, 1982). Il complicato, il difficile erano ormai da un secolo nelle idee che tra gli addetti accompagnavano il pensiero della musica. Un tarlo dai Quartetti di Beethoven, da Schumann, da Wagner, dal Tristano, e infine da Schoenberg, che impediva a molti di apprezzare non solo un Satie, ma anche un Gershwin, se non collocandolo in un insieme di minor valore. È eevidente che se la pratica del fare musica così come del teatro musicale sente l’obbligo di essere contigua e procedere dalla lezione del nazionalismo musicale della Germania dell’Ottocento, continuando a osservarne i principi, essa non potrà partire dalla constatazione che tutto è ormai cambiato poiché si è già sulla strada tracciata dagli strumenti della democrazia e delle comunicazioni di massa. Hitler sa come rivolgersi al popolo, Adorno no. Ciò implica che Hitler ha un seguito che Adorno non ha. Ciò non significa che quel che dice Hitler sia più sensato di quel che dice Adorno, ma non significa nemmeno l’opposto, in linea di principio almeno, anche se il giudizio pratico, cioè quello sintetico, afferma che è così.
Senza somigliare in alcunché al criminale nazista, Kurt Weill ha al pari di quello il senso di quel che piace alla massa. Anzi lo ha in maniera autentica, perché mentre l’altro è costretto a imporre alla generalità la scelta che egli vuole, il musicista non impone assolutamente nulla: va a segno perché convince con l’immediatezza. Ci mette un po’ di tempo, ce lo dice la sua biografia, a scoprire come scrivere Speak low o The Saga of Jenny, ma quando coglie il segno fa piovere sullo spettatore magiche canzoni che s’incastonano splendidamente nel teatro o nei film per cui le scrive. Per sé, per la sua arte egli ha risolto un problema che né Aldo Clementi, né Luciano Berio sono riusciti a risolvere, che consiste nello scrivere una canzone irresistibile. Nella musica erede della vecchia Europa musicale sembra sia stato difficilissimo, se non impossibile, cogliere la bellezza nell’immediato. Eppure è forse l’unica vera bellezza, come sanno gli scienziati che appunto dicono “bella” o “elegante” una soluzione che si offre come ovvia, che si palesa. È la bellezza della tragedia, quando accade quel che non poteva che succedere così, ma è la bellezza anche di Rio Bo di Palazzeschi che risponde in questo modo al pompierismo della passion rhétorique, ma anche alla poesiola con lacrimuccia incorporata. Se si vuole un’analogia musicale, quanto detto suggerisce che si possano rivedere i certificati di qualità ipotizzando che Kurt Weill con Listen to My Song, presa tra le tante come campione eccellente della musica gebrauch, avesse voluto fronteggiare i wagneriani del primo Novecento oppure, perché no?, Puccini. Il costume (o il malcostume?) del “latinorum” può essere una sonda per valutare la conversazione epistolare tra Cage e Boulez, soprattutto diciamo a proposito del Quartetto dell’ineffabile John, chiedendosi se un trattato di scienza della costruzione spieghi l’arte solo perché il costrutto è senza scopi apparenti. Il riferimento a Kant è evidente, ma che cos’è «un fine senza scopi»? Cos’è perseguirlo? Lo sgocciolamento di Pollock non ha certo complicazioni tecniche, come non l’ha scrivere «…l’urlo dei manipoli… l’onda dei cavalli…», anziché «…il vento odo stormir tra queste piante…», oppure «ma bouche s’accouple souvent à sa ventouse…».
Comunque le scienze non cercano il difficile; distinguono, se vogliono, tra quello che s’è capito e quel che ancora resta oscuro, in quel che s’è capito fin dove e cercano cosa ostacoli, oggettivamente o nelle ipotesi usate, l’ulteriore progresso della conoscenza. Nell’arte non c’è conoscenza, ma forse ai taumaturghi piace metter lì difficoltà per chi voglia penetrare le loro cose. Magari anche la difficoltà dell’apparente semplicità, di ciò che apparentemente è già del tutto risolto: Bach per esempio. Il quale del resto è tutto risolto, sicché i problemi nascono dalle ipotesi del fare le sue cose un po’ più così o cosà, magari con strumenti elettronici o con un ensemble di armoniche a bocca. In definitiva è come con qualsiasi musica baciata dall’immediatezza. Quanto al resto, la cui presenza si ritiene d’avvertire nelle opere d’arte, è quello di cui, se il fine è di conoscere, non si può dire nulla; se poi si tratti di quelli che sono comunemente pensati come valori trascendentali, se la loro svalutazione sembrasse qui in atto, chi avesse a rammaricarsene pensi alle offese per mano dell’integralismo e si chieda se il tema le giustifica.
Una questione che è ancora tutta da discutere: se gli eredi di Beethoven siano i Bang on a Can o gli alchimisti di Darmstadt
In fondo, anche Weill è stato vittima di un integralismo, quello del primato della krante musika tetescha, la cui traccia si scorge persino in chi lo apprezza per quel po’ di musica da concerto e le 2 Sinfonie scritte negli anni Venti, qualcosa di ancor prima che si mettesse a studiare composizione con Busoni.
Non è questa la musica che fa di lui un compositore unico, ma quella per il cinema e per lo strano mondo del teatro musicale americano. Due generi che a Broadway e Hollywood hanno finito col rigettare le basi individualistiche e personali della creatività allo spettacolo quale era stata in Europa; due generi nei quali l’autore può anche perdersi, non ottenere la visibilità che conduce al pubblico riconoscimento. Cenni a liberarsi dal peso e dall’autorità del compositore si manifestarono col melodramma anche nell’Ottocento, ma non più che cenni; e un melodramma aperto, non tanto privo di testo quanto tale per cui non sia mai questione di fedeltà o infedeltà al testo, non l’abbiamo ancora visto. Naturalmente, la macchina industriale è la meno interessata a realizzarlo. Ma allorquando le opere (i melodrammi) cominciano a dar segno di volersi ridurre agli hit che contengono, quando la registrazione ci dà un’esecuzione che si limita ai punti salienti, perché ostinarsi a non voler capire un compositore che si orienti a scrivere soltanto questi? Come non capire Kurt Weill e con lui Waxman o Kosma o il Miles Davis di Ascensore per il patibolo? Il sopra e il sotto non esistono più, se non funzionalmente o per violenza. Il sole allo zenith è sopra le nostre teste, ma non sappiamo se queste siano più in alto del pavimento su cui stiamo, o più in basso.
Oltre a tutto ciò, è però necessario dire che Weill è stato acutamente sensibile a un problema che chiameremmo tecnico. È un problema che un italiano nato nella prima metà del Novecento potrebbe anche non aver mai avvertito ed è quello costituito dallo scontro con il realismo che è nei modi d’espressione funzionali al melodramma. Chi non avverte come ridicolo che si percorra la vita cantando, tra cene, duelli, discussioni anche banali, che cantando si derida qualcuno, lo si preghi, ne si contrastino gli atti, è assuefatto al modo espressivo irreale del melodramma. Lo schema della narrazione vuole che ciò fosse possibile perché in scena c’erano supereroi e divinità, ma ben presto ci sono saliti pescatori e servette, ragion per cui, se non ci fosse una complicità, un’accettazione dell’uso, dovrebbe scaturirne un rifiuto. Puccini non ha nessun problema: sulla sua scena salgono anche i suoi simili; Wagner non è così temerario, ha bisogno di mantenere le distanze del leggendario, dell’eroico, del mitico. Kurt Weill, arrivato negli Usa con alle spalle già un gran bagaglio di cose fatte, quando mette mano a quel che diventerà Lady in the Dark, il suo vero primo successo nel Nuovo mondo, discutendone con Moss Hart, nel vecchio linguaggio il librettista, e può darsi anche con Ira Gershwin, coinvolto come specialista nei testi delle canzoni (è un prodotto della divisione del lavoro e della rifinitura specialistica che orienta al lavoro di équipe per produrre uno show, come se Rossini e gli altri avessero potuto giovarsi di un cabalettista), arriva alla conclusione che il mondo dei sogni di Liza Elliot, la Lady, non è in dark perché veste di nero – anche se può farlo – ma perché la sua mente è nell’oscurità per cui ella ricorre allo psicoanalista, e che questo mondo sia quello contornato e immerso nella musica, mentre quello della commedia, in situazioni che diciamo normali, sarà un mondo nel quale si parla, più o meno come comunemente avviene.
Ci si può domandare se in ciò ci sia una nascosta ipotesi sulla malvagità della musica, sulla sua invasione ottenebrante, come chiaramente dichiarato da Platone un venticinque secoli fa. Sta di fatto che qui la musica non è terapia al dolore, com’era in Rossini, in Donizetti, almeno per quel che riguardava la scena. Funziona benissimo il marchingegno weilliano per questo testo. Ma non si tratta sempre di avere di fronte a sé personaggi scissi tra realtà e fantasia, o delirio, o sogno. Tornando a un lavoro in due atti, un’altra opera, Street Scene, questa volta con libretto di Elmer Rice e canzoni di Langstone Hughes (guarda dove vanno a finire le Sputacchiere d’ottone), non gli offre la stessa possibilità di separare due mondi, sicché Weill se ne torna verso la tradizione, giocando con gli strumenti teatral-musicali ch’erano stati a disposizione anche per Carmen e per Porgy and Bess, ricavandone un insieme nel quale i pezzi solistici s’integrano benissimo nel tessuto, ma s’avvalgono di situazioni particolarmente favorevoli all’artificio, come per esempio il ballare. Ne esce per esempio un boogie cantato e ballato, che è alla chiusura del primo atto, che stranamente soffre della poca distanza, non scorre liscio come i balletti rosa, o della sfumatura di colore che preferite, del duca di Mantova o di altri manichini del teatro d’opera. Bene! A quanto pare per la Lady Weill s’era dato in seguito questa giustificazione: “un dramma parlato, interrotto da tre opere in un atto di circa 2 minuti l’una di durata”. Qui non trova il grimaldello, ma non c’è niente da giustificare. Si è tranquillamente scivolati in quello che per molti è un altro genere, la commedia musicale o musical, col che si accoglie lo iato che rende incommensurabile una sinfonia dell’Ottocento europeo con una della metà del Novecento Usa. È una questione che è tutta ancora da discutere: se gli eredi di Beethoven siano i Bang on a Can oppure gli alchimisti di Darmstadt.
Dopo Street Scene (1947), Weill farà a tempo a darci soltanto la modesta Love Life (1948) e l’appassionante Lost in the Stars (1949). L’anno successivo morirà all’inizio di aprile, all’età di 50 anni, 1 mese e 1 giorno. Sua moglie e l’interprete di tanti suoi personaggi, Lotte Lenya, la rivedremo nella scena dell’albergo veneziano in Dalla Russia con amore.