Incontri • Il violinista Uto Ughi ha presentato a Firenze il suo libro autobiografico: episodi della carriera e di vita privata. Domani sarà in concerto al Teatro Verdi. Sull’Italia? «Finché la politica metterà ai vertici dei teatri persone non competenti, la situazione non cambierà»
di Michele Manzotti
[IL] violinista Uto Ughi racconta sé stesso in un libro: la propria carriera e la vita privata. La sua famiglia di origine istriana («Gli istriani sono un popolo particolare. Hanno dovuto pagare un caro prezzo, sono stati costretti a lasciare le loro terre, in modo talora tragico, tra l’indifferenza e il cinismo di chi sapeva e ha taciuto per opportunismo politico») si trasferì dopo la Seconda guerra mondiale a Busto Arsizio, dove nacque Uto, ovvero “Bruto”. «Mio padre volle chiamarmi così per ricordare suo fratello, Bruto, morto in Africa, combattendo nella battaglia di El Alamein, nel 1942». Ricordi d’infanzia e di vita professionale che si susseguono quindi con un ritmo narrativo serrato, offrendo un lato inedito del violinista. La sua presenza fiorentina è stata in veste duplice: da una parte è stato presentato il concerto del Teatro Verdi che si terrà l’8 maggio, dall’altra la libreria Feltrinelli lo ha ospitato come autore di Quel diavolo di un trillo (Einaudi). «Il concerto con I Filarmonici di Roma – spiega Ughi – è stato organizzato per il lancio del mio nuovo disco che uscirà per la Sony. Ho scelto brani della letteratura violinistica che non fosse necessariamente legata agli autori più noti ma anche a compositori come Pablo de Sarasate, Fritz Kreisler e altri che ci hanno lasciato brani molto belli».
A proposito di registrazioni discografiche, nelle pagine del suo libro spiega l’impegno al quale è chiamato l’interprete di oggi nell’atto della registrazione. È sempre lo stesso impegno dell’era pre digitale?
«Una volta era molto di più. Senza le tecniche di oggi dovevamo arrivare all’esecuzione in forma perfetta per evitare che si fermasse su disco un’esecuzione poco soddisfacente. Attualmente si possono scomporre con il computer le incisioni nota per nota e fare in modo che esca un bel prodotto grazie al lavoro in studio. Personalmente ho sempre preferito esibirmi dal vivo e incidere dischi con la presenza del pubblico. Poi ci sono anche musicisti che per timore del pubblico stesso fanno una registrazione dietro l’altra».
Spesso a un violinista di fama internazionale si accompagna un violino di grande valore, magari costruito dai liutai italiani del Sei-Settecento, come Stradivari o Guarneri del Gesù. Da interprete, in tanti anni di carriera, è riuscito a darsi una spiegazione del segreto di questi strumenti?
«Le loro sonorità non sono mai state eguagliate. Fino a oggi in tanti hanno provato a scoprire i segreti del legno, delle vernici, della costruzione, ma senza il risultato sperato. Inoltre, per fare un esempio, uno Stradivari ha la qualità di avvicinarsi al suono della voce umana, al belcanto di compositori come Bellini o Donizetti. Al di là di questo, è l’esecutore che dà il vero valore allo strumento. Ho sentito ad esempio tanti bravissimi giovani suonare egregiamente senza un violino di pregio come quelli citati, che oltretutto hanno costi proibitivi».
Nella sua carriera ha suonato in tutto il mondo. Conserva dei ricordi particolari legati a un luogo fisico o al pubblico?
«Innanzitutto è l’esecutore che deve saper conquistare chi lo ascolta. Partendo da questo concetto, il pubblico che viene ai concerti è uguale in ogni paese dove mi esibisco. Ci sono però alcune città dove suono particolarmente volentieri, come quelle dell’Austria, della Cina e in Sudamerica. Il pubblico di Buenos Aires e del teatro Colón riesce a entrare in sintonia con l’artista in modo speciale».
La vita frenetica di un concertista impone a volte dei ritmi molto serrati. Qual è il suo rapporto con il viaggio? Le piace visitare i luoghi nei quali suona?
«I viaggi per me sono vitali come una trasfusione di sangue. Per questo ho voluto da sempre rompere la routine aereo-albergo-teatro lasciandomi dei giorni per andare in giro e vedere più posti possibile. Ad esempio, sono andato fino al centro della Foresta Amazzonica e ho affrontato sette ore di aereo da Santiago del Cile per andare nell’isola di Pasqua e vedere dal vivo ciò che tanti hanno visto per immagini o nel film Rapa Nui».
Nella sua formazione, raccontata nel libro, compare in evidenza un compositore poco presente nei programmi di sala, George Enescu.
«Oltre a essere un musicista di grande livello era anche un personaggio straordinario. La sua storia inoltre era particolarmente drammatica, dato che dovette abbandonare la Romania per la Francia, dove è conosciuto come Enesco. Mi trovai di fronte a lui che ero poco più di un bambino e stette ad ascoltarmi per un pomeriggio intero senza volere alcun compenso».
Siamo a Firenze e non possiamo non chiederle un suo parere sulla situazione economica difficile del Maggio Musicale…
«Purtroppo so della crisi di questa istituzione che non può essere abbandonata. Ho notizie continue da amici che ci lavorano. Però sottolineo un aspetto che non riguarda solo Firenze, ma tutta Italia. Finché la politica metterà ai vertici dei teatri persone non competenti, la situazione non cambierà».
Vede qualche giovane talento che apprezza, sia per quanto riguarda il violino sia in altri strumenti?
«Fortunatamente in Italia ce ne sono tanti. Al tempo stesso non riescono a esprimersi al meglio proprio per la nostra situazione. Sento un continuo cahier de doléances… ».
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