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Novecento • Tra concerti e conferenze si svolge nella città emiliana il ciclo “Pour Bruno”, dedicato al grande compositore italiano nel quarantennale della scomparsa. Una retrospettiva di qualità che forse ha avuto il limite di non proporre le sue opere musicali più significative. Ultimo appuntamento domani presso il Conservatorio “G.B. Martini”
di Giampiero Cane
[Egrave] necessario rassegnarsi. Per anni personalmente ho fatto il possibile per promuovere la musica del Novecento, se non proprio incondizionatamente, quasi. È però innegabile che sia ormai in parte invecchiata quanto lo è un minuetto compitato per una qualche corte del Settecento o nell’Ottocento dopo la Restaurazione. Segni di una precipitosa, più che non precoce senilità, erano stati avvertiti e denunciati da Adorno. Un suo scritto, «Invecchiamento della musica moderna», raccolto in Dissonanzen, 1958 (vers. it. 1959, Feltrinelli) affermava che la musica nuova del Novecento, i Lieder di Berg, il Sacre du printemps di Stravinskij, «procurarono uno choc» al pubblico dell’epoca, a causa del loro carattere angoscioso e sconvolto.
Per sua propria natura, quella nuova musica non è come quella che i musicisti si lasciarono alle spalle e non è choccante perché oscura e ignota, ma è destinata a non essere bella nel medesimo senso in cui era stata tale la musica del passato, che ora è ripudiata dai nuovi musicisti. Il filosofo sostiene che essa non può non cadere in contraddizione con la sua propria idea, perché la sua sostanzialità e la sua estetica non sono positive, ma negative dell’idea dell’arte, che in qualche modo dev’essere di bellezza anche quando mostri qualcosa che in sé bello non è: il potere come prevaricazione, la morte, il degrado umano, i rifiuti, la corruzione e così via: per esempio se Dante avesse sentito il bisogno di adeguare la lingua alla natura dei suoi dannati, forse avrebbe dovuto scrivere parole che oggi dicono alcuni dei nostri onorevoli, dei nostri leader, delle persone in cui dovremmo poterci specchiare, perché sembrerebbe che ci rappresentino nella totalità, essendo cioè ogni onorevole ciascuno di noi e tutti insieme.
Impossibilitata a negare l’impulso angoscioso, la musica nuova del Novecento si rivela incapace di pacificazione e invecchia, correndo verso la propria stessa morte. L’ordine schoenberghiano nella dodecafonia è il sintomo di quella morte che sta accadendo (lo capisce Ugo Duse che descrive il muoversi della serie dodecafonica come le grandi manovre in una pochade militare). I personaggi di Mozart sono già gli zombie che ballano in Per favore non mordermi su collo. Non sono più tragici, oggi, ma ormai comici se non vengono ricollocati con una partecipazione sentimentale che li snatura da sé e li traduce in noi. In assenza di ciò, non facendo ridere sarebbero patetici come Suzel e Fritz.
Adorno, che aveva mille ragioni, non fu amato dai musicisti perché non solo aveva grossolamente toppato sul jazz, ma anche delirato su un antagonismo Schoenberg-Stravinskij che era soltanto suo, cioè una polarità della sua mente, un dualismo capace di produrre depressione e null’altro. Ma, quanto all’invecchiamento, non possiamo che dargli pienamente ragione perché finanche uno dei musicisti più simpatici, più sciolti, uno che sembrava nato per significare il Novecento, in una sua naturale bellezza, riascoltato a Bologna, al Comunale, Bruno Maderna, mostra con Don Perlimplin una produzione musicale modestissima, che s’accende in un paio di punti e non più, e con Venetian Journal, quel che non potremmo dire se non una pagina di goliardia che, all’inizio degli anni Settanta, si fa beffe del suo stesso passato, dando vita a un’installazione sonora di detriti e in tal modo facendo marameo a quel che Rauschenberg già aveva fatto con l’arte figurativa.
Ricordando i quarant’anni dalla morte non occorreva proprio andare a ripescare, nella non amplissima produzione di Maderna, due esempi della sua musica più modesta, o addirittura cattiva. C’è una certa mania in giro, riguarda artisti, attori, immagini pubbliche, la quale vuole che se c’è in qualcuno qualcosa di buono sia poi buono tutto. Non è vero. Non lo è per Mozart, non lo è per Verdi, forse non lo è per nessuno, se non per uno che abbia lasciato una cosa sola.
Non trovo facile capire cosa abbia fatto sì che Maderna trattasse in maniera così esemplarmente stupida il diario veneziano di Boswell. Questi non è un grande scrittore, anzi è piuttosto insulso, a nostro parere, anche se probabilmente è o, meglio, fu una persona perbene. Non è tanto Jonathan Levy, il quale redige da quel diario il testo, quanto proprio Maderna che con la sua musica dà al tutto un’immagine da osteria, che non sarebbe male solo se manifesta e, dunque, diremmo, insopportabile all’ipocrisia. Non lo fa e il risultato è di trattare chi oggi l’ascolti come uno che non può non sentirsi demente perché è stato infilato a sua insaputa in una gabbia di luoghi comuni, mentre credeva di andare ad ascoltare la musica di un musicista che non fu polemico, ma anzi propositivo, che insegnò a molti a cavar da sé il meglio, per offrirlo, anche quando non era gran cosa.
Maderna non potrebbe essere indicato come un esempio parlando di musica che segua un programma filosofico o un metodo. La sua qualità era nella non regolarità. Era un gran direttore d’orchestra, direi il maggiore della sua generazione che non credo abbia mai diretto avendo cercato il carattere di una musica nelle registrazioni altrui. Scherchen fu il suo maestro preferito, ma lui insegnò l’orchestra ai compositori suoi contemporanei, chiamati a volte a dirigere. Credo che a lui non dispiacesse affatto. La sua pazienza infinita fu messa a dura prova dagli orchestrali di Bologna per la prima italiana della Trenodia di Penderecki, ma, quando alla fine l’orchestra gli cedette, alla prima lettura il testo era già chiaro e praticamente a posto. Quanto alle sue musiche, a differenza di quel che abbiamo in Satyricon, in Hyperion, nei concerti per oboe, nella Serenata per un satellite, in Musica su due dimensioni, il Perlimplin è povera cosa, se non per le parti per il flauto solista e per un insieme vocale madrigalesco, che è incantevole.
L’esecuzione bolognese ha avuto un’ottima qualità orchestrale per il solismo di Devis Mariotti, il flauto che impersona Don Perlimplin, più di routine nelle parti recitate da Patrizio Roversi, Susy Blady e Sonia Bergamasco; il Venetian Journal s’avvaleva della voce di Saverio Bambi e le due musiche, con gli strumentisti dell’orchestra del Comunale, erano dirette al meglio da Marco Angius. Il pubblico era pochissimo, nemmeno mezza platea, nessuno nei palchi. Ci si chiede perché fare una cosa così, di nascosto, verrebbe da dire “a propria insaputa”. Che un festival dedicato a un musicista del passato debba, nel corso degli anni, presentare anche le cose minori o persino minime, è comprensibile: a Pesaro ci si beccano non solo il Tell, ma certe cantate che col Ciro, col Bruschino e altro, non sono proprio le perle del compositore.
Maderna non era celebrato in vita come compositore, se non nel circolo affatto esclusivo di chi negli anni Cinquanta e Sessanta s’interessava all’alchimia di Darmstadt, approvandola o opponendovisi. Pochi conoscono la sua musica migliore. Perché buttare energie a promuovere quella che non è tale, anche se forse non è nemmeno la peggiore? Però ci si son messi d’impegno e il programma di questo concerto è stato inserito in un omaggio al musicista “Pour Bruno”, con tanto di convegno organizzato dall’archivio Maderna dell’Università di Bologna, presentazione di questo concerto a Lugo, e a Bologna (due sere) e altri due appuntamenti concertistici.
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