Interviste • Oggi è uno dei grandi interpreti internazionali del repertorio Sei-Settecentesco. Quando dall’Italia si trasferì a Basilea fece anche il trasportatore di mobili, mangiando una volta al giorno. Lo abbiamo incontrato in occasione del Premio alla Carriera conferitogli dal Conservatorio di Castelfranco Veneto
di Elena Filini
QUINDICI ANNI FA HA RINUNCIATO PER SEMPRE ad un futuro nei Conservatori italiani rassegnando le sue dimissioni. Una decisione sofferta, ma resa necessaria dall’asfissia dell’ambiente in cui «si doveva lottare per le cose più ovvie». Ora sarà premiato proprio da un Conservatorio. Senza tuttavia avere alcuna speranza logica di poter mai più insegnare a Venezia o nel Veneto. Incerti della sorte che toccano oggi Andrea Marcon, clavicembalista, organista e direttore italiano tra i più stimati all’estero, come in un futuro non remoto toccarono nomi che fanno scalpore quali, ad esempio, Giuseppe Verdi, che venne prima scoraggiato senza pietà per poi essere chiamato a divenire estensore dei programmi di studio della Nuova Italia. Tuttavia il musicista trevigiano sarà orgogliosamente in scena a ricevere il proprio premio. Nello stesso luogo da cui, alla fine del XVII secolo partì Agostino Steffani, suo conterraneo destinato allo stesso modo a diventare una celebrità nei Paesi di area germanica. Dopo il diploma nel periferico Conservatorio di Castelfranco, anno 1982, la Schola Cantorum Basiliensis, poi l’esperienza con i Sonatori de la Gioiosa Marca nel barocco veneziano, infine la cattedra a Basilea poi al Mozarteum di Salisburgo e la fondazione dell’Orchestra Barocca di Venezia (conosciuta all’estero come Venice Baroque Orchestra). Ma la strada di Marcon ad un certo punto sembra voler sfondare i confini del repertorio antico; arrivano infatti i Berliner prima con Vivaldi e poi con un futuro tutto da scrivere. Poi dall’anno prossimo due grandi opere di Händel ad Aix-en-Provence (Ariodante e Alcina), e la fresca la nomina a direttore artistico dell’Orchestra Sinfonica della Città di Granada. Ma in Italia le occasioni di lavoro sono ridottissime. «Sarò con piacere al Conservatorio di Castelfranco perché questa del premio alla carriera è una bella iniziativa. In Italia infatti i Conservatori sembrano non ricordarsi degli ex studenti che poi hanno fatto della musica la propria professione, perdendo così anche occasioni di contatto importanti con il mondo produttivo. Nei paesi anglosassoni ad esempio è normale per le accademie riunire gli ex allievi. Per questo quella di Paolo Troncon mi pare un’iniziativa molto interessante».
La sua percezione della realtà dei Conservatori italiani è cambiata nel tempo?
«Per nulla. La riflessione resta inalterata. Il problema vero a parer mio non è tanto la riforma quanto il sistema di reclutamento degli insegnanti. In nessun luogo d’Europa i requisiti d’ingresso sono così ipotetici e soggettivi. Dovrebbero abolire da subito i trasferimenti di anzianità (amenità unicamente italiana) per lasciar spazio a dei veri concorsi su ogni cattedra che si libera. Fuori dall’Italia conta chi sa suonare, ha predisposizione per l’insegnamento, è poliglotta. E soprattutto le selezioni sono veri concerti e dimostrazioni didattiche pubbliche. Quando entrai a Basilea, in commissione mi giudicò Gustav Leonhardt».
Cosa dirà ai giovani diplomati, che l’Italia non offre speranze?
«Purtroppo dirò che se uno è intenzionato a fare della musica la propria professione, l’unica strada è l’estero. A meno che non abbia contatti e conoscenze anche politiche di una certa influenza. In Italia iniziamo finalmente a parlare di quanto siano importanti merito e qualificazione. Ma spesso rimangono solo un gioco di parole e non si riesce mai a cambiare nulla».
Qual è stata la ragione per cui si è avvicinato al repertorio barocco in tempi non sospetti?
«Negli anni Settanta fare barocco era tutto tranne che calcolo, come magari può esserlo oggi. Io da ragazzo in realtà amavo molto Mahler e la musica romantica. Poi ho scoperto gli organi storici di Treviso e del Veneto, un patrimonio straordinario che ha influenzato, forse inconsapevolmente ma per sempre, il mio approccio alla musica»
La musica antica cambia dunque l’approccio interpretativo di ogni repertorio?
«Si perché sviluppa una curiosità, un desiderio di confrontarsi con manoscritti e fonti dirette che ha ripercussione in tutti i repertori, dalla musica rinascimentale fino ad arrivare proprio a Mahler. È direi una voglia di restituire l’originale quale che sia nella maniera più integra e viva possibile»
I maggiori festival europei, le incisioni con la Sony e la Deutsche Grammophon, tutto il percorso con la Venice Baroque Orchestra hanno avuto però un finale imprevedibile: l’incontro con i Berliner Philarmoniker.
«Ho realizzato molti dischi con il mezzosoprano Magdalena Kožená, moglie di Simon Rattle. E proprio da quest’ultimo è nato il desiderio di avermi come organista per una Passione secondo Matteo da realizzare con i Berliner in una sorta di ritualizzazione curata da Peter Sellars nel 2010. Circa sei mesi dopo, il giorno prima del mio compleanno, mi arriva la telefonata del mio agente tedesco: i Berliner mi volevano come direttore per tre concerti alla Filarmonica nella loro serie. Credo di non aver mai ricevuto regalo più gradito».
E cosa si scelse?
«Vivaldi, che l’orchestra non eseguiva da 25 anni. L’ultima volta era stata con Karajan e Anne-Sophie Mutter. Io proposi quattro concerti strumentali piuttosto desueti, uno inedito, e il Gloria con il RIAS Kammerchor».
Oggi, nonostante l’Italia sia più o meno solo il luogo in cui cambia le valigie, è un professionista arrivato. Come furono i primi anni a Basilea?
«Duri. Facevo il trasportatore di mobili e mangiavo una volta al giorno. Però presto m’inventai di tutto: dalle lezioni d’italiano per i cantanti stranieri, all’accompagnamento e preparazione sempre di cantanti e solisti, alle ripetizioni delle lezioni di Gehörbildung. Finché riuscii a diventare organista in una chiesa riformata e della Chiesa Cattolica Francese di Basilea».
Tra i progetti futuri che le stanno più a cuore?
«L’invito al Festival di Aix-en-Provence. Io cerco di fare solo un’opera all’anno perché per me significa due mesi di duro lavoro. Il Festival di Aix, che rimane il tempio di un certo modo di fare l’opera settecentesca, mi ha invitato per Ariodante di Händel nel 2014 ed Alcina nel 2015. Sono sicuro sarà una grandissima esperienza musicale».
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