Il compositore, la cui poetica abbraccia da anni le nuove tecnologie, è stato ospite della rassegna Maggio Elettrico, firmata da Tempo Reale e Opera di Firenze. È l’occasione per parlare del live electronics in rapporto alla mai rinnegata “tradizione”
di Michele Manzotti
È STATO PROTAGONISTA (insieme alle composizioni di Michele Foresi, Denis Smalley e Stefano Trevisi) del primo appuntamento del Maggio Elettrico, il ciclo di concerti curato da Tempo Reale all’interno del tradizionale festival fiorentino. Di lui è stata eseguita una prima assoluta, Sospeso d’incanto n.3 per pianoforte e live electronics. Adriano Guarnieri, classe 1947, un’attività intensa come compositore a partire dagli anni Settanta, due premi “Franco Abbiati” (il primo nel 1987 con l’azione lirica Trionfo nella notte e il secondo con Medea nel 2002), è stato ospite della serata introduttiva della rassegna, dal titolo Piano+, che ha visto protagonisti al pianoforte Stefania Amisano e Stefano Malferrari. Un appuntamento con la celebrazione di un protagonista della musica italiana che per alcuni potrebbe sembrare un punto d’arrivo, ma che per Guarnieri è stata un’ulteriore occasione per guardare avanti.
Oggi si dà per scontato che nella musica colta possano essere presenti elettronica o amplificazioni, ma una volta non era così. Qual è stato il suo approccio?
«Mi sono accostato anch’io all’elettronica con l’uso di apparecchiature tecniche che allora erano delle novità. Però non mi sono mai voluto discostare da una tradizione che d’altra parte è alla base del mio lavoro e di altri compositori. Non posso dimenticare ad esempio quanto ha voluto dire il Cinquecento italiano per la nostra storia. Ho anche una sorta di ritrosia per la tecnica a tutti i costi. Al tempo stesso quando si porta avanti un linguaggio come quello musicale si utilizzano tutti i mezzi a disposizione per cercare e ottenere sonorità particolari».
E da un punto di vista pratico, quanto contano le tecnologie quando compone?
«Il computer è molto utile, ma scrivo ancora a mano con tanto di righello. Pensi che per scrivere una pagina impiego dieci ore, utilizzando anche dei pennarelli speciali che trovo in un negozio di Milano. Credo ancora molto nella semiologia della musica. Inoltre ho il dono di poter scrivere direttamente ciò che sento dentro di me, senza l’aiuto del pianoforte o di altri strumenti».
La musica contemporanea per anni è stata identificata con la difficoltà dell’ascolto, quasi che l’uso di elementi melodici fosse un elemento da valutare con diffidenza…
«Verissimo, era una sorta di reazione ideologica al passato. L’avanguardia degli anni Settanta ha comunque prodotto grandi lavori. Piuttosto nei decenni successivi c’è stata un’ulteriore reazione con la ricerca della semplicità nella composizione e di un nuovo ruolo della melodia con esiti non sempre felici. I compositori più giovani tendono a non tenere più conto di quei dibattiti. L’orecchio di oggi ha superato questa contrapposizione: consonanza e dissonanza convivono e il merito va anche a quella produzione che allo stesso orecchio faceva tanto male tanto da sembrare una provocazione. Devo però dire che l’ideologia in questo senso è ancora presente e ha il suo centro principale all’Ircam di Parigi».
Lei ha una produzione molto ampia. Le composizioni sono come dei figli, ma non posso non chiederle a quali si sente più legato, come scrittura o come risultato dell’esecuzione…
«Anche nel caso dei figli ci sono quelli prediletti. Per quanto mi riguarda penso subito a Medea, un lavoro teatrale con l’elettronica, l’orchestra e il coro. Senza fare classifiche è una composizione che in me ha lasciato un segno importante. Ricordo con piacere anche Terra del tramonto con l’Orchestra nazionale della Rai. Adesso con Tempo Reale sto lavorando a una Cantata dedicata alle vittime della ThyssenKrupp che sarà eseguita a Torino, mentre l’anno prossimo nascerà una composizione ispirata al Paradiso per le celebrazioni di Dante a Firenze. Anche in questi casi elettronica e coro saranno protagoniste insieme».
Ha citato Tempo Reale che l’ha ospitata in questo ciclo di concerti. Quali sono i rapporti con l’istituzione fiorentina?
«Sono contatti che vengono da lontano, dall’attività con Luciano Berio che ha portato a produzioni importanti e a lavori teatrali. Mi ha fatto quindi molto piacere tornare a lavorare con questa istituzione e con la nuova dirigenza che sa guardare avanti. Ritengo che Tempo Reale debba avere una dimensione europea anche per evitare che i nostri musicisti scappino all’estero a fare i corsi di perfezionamento, specialmente a Parigi. Abbiamo già qui il nostro Beaubourg, dove tra l’altro c’è un atteggiamento accogliente e di collaborazione, cosa non semplice da trovare nell’ambiente musicale».
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