di Gianluigi Mattietti
L‘Harpa, il nuovo, avveniristico auditorium di Reykjavík, ha ospitato anche quest’inverno i Dark Music Days, una rassegna di musica contemporanea che esplora le tendenze più radicali, iconoclaste, tipiche delle giovani generazioni, con istallazioni e soluzioni molto sperimentali. Ma tra i cinquanta lavori presentati c’erano anche concerti tradizionali e retrospettive dedicate ad alcune figure storiche della musica islandese del XX secolo. L’ottimo coro da camera Hljómeyki, ha reso omaggio a Emil Thoroddsen (1898-1944), compositore formatosi in Danimarca e in Germania, attivo anche come critico musicale e come pittore, e celebre per le sue trascrizioni di numerosi canti tradizionali islandesi. All’esecuzione di molti di queste rielaborazioni corali, che suscitavano grande emozione nel pubblico, si sono alternati dei lavori di Hugi Guðmundsson (1977), pezzi dal carattere misterioso, pieni di interessanti soluzioni armoniche, ispirati ad alcuni dipinti di Thoroddsen. L’Orchestra Sinfonica Islandese, diretta da Petri Sakari, ha celebrato un decano dei compositori islandesi come Atli Heimir Sveinsson, con l’esecuzione di Doloroso (1998) una trenodia dal carattere lirico e avvolgente, dominata dal melos del primo violino, e da richiami agli inni funebri islandesi, composta per la morte prematura della first lady nel 1998.
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Nello stesso concerto si sono ascoltati Polaris di Thomas Adès, ormai un classico, costruito con un sofisticato gioco di canoni, e tre nuovi pezzi islandesi, tutti e tre ispirati a particolari fenomeni fisici e naturali: Echo Chamber di Haukur Tómasson era un concerto per viola (solista Þórunn Ósk Marinósdóttir) dal taglio molto tradizionale, magistralmente orchestrato, dalla struttura chiaramente tematica e dal gusto un po’ bartokiano, con zone minimal che miravano a descrivere gli effetti di reiterazione e di amplificazione in una camera d’eco; in Arborescence di Úlfur Hansson (scritto per l’Orchestre Philharmonique de Radio France), pezzo magmatico, pieno di metamorfosi, molto interessante (ricordava un po’ la musica di Jon Leifs), grandi masse sonore si sviluppavano a partire da minimi filamenti melodici, da pizzicati e glissati degli archi che si trasformavano in trame rigogliose, come grandi bolle timbriche; Cycles di Kristín Þóra Haraldsdótti si basava infine su serie si suoni ricavate dagli armonici naturali, che generavano lunghe fasce, ricche di pulsazioni interne, con un’atmosfera vagamente arcaica.
Molto interessanti i pezzi eseguiti nel concerto del Caput Ensemble, storico gruppo islandese, diretto da Guðni Franzson. Tre di compositori islandesi: Ballet VI di Jónas Tómasson (compositore che negli anni Settanta è stato attivo in Olanda con il gruppo concettuale SÚM), lavoro dal carattere metafisico, basato su una polifonia scarna e lineare; Referral Stampede di Sigurður Árni Jónsson, dominato da un esprit de géométrie e da timbri puri; l’impressionistico Shades di Áskell Másson, concepito come una libera fantasia, fatta di episodi nettamente distinti e basata su una melodia popolare del XVIII secolo intitolata «Kvinnan fróma, klædd með sóma». Il lavoro più bello era però quello del danese Niels Rosing-Schow, uno dei protagonisti dell’avanguardia musicale degli anni Settanta nel suo paese: FlashNight (2016), esempio del suo stile recente, incorporava elementi della musica spettrale, in un nitido percorso formale, con una scrittura timbricamente molto definita, fatta di soffi, echi, processi di crescendo, pulsazioni ritmiche insistenti, bolle armoniche, trame leggere e rumoristiche che via via si sfibravano in un raffinato gioco di echi.
Un altro ensemble islandese, Nordic Affect, che suona strumenti d’epoca, ha invece presentato musiche che si confrontavano con stili, forme e pratiche della musica barocca: Smiling Tears dell’islandese Úlfar Ingi Haraldsson era costruito come una suite di temi barocchi distorti e mescolati con l’elettronica; l’originale, ironico paleoecology n/a dell’americano Alexander Sigman, fatto di materiali elementari, effetti stridenti, pulsazioni secche, gesti semplici ma montati insieme con intelligenza musicale, si ispirava a modelli di vocalizzazione, respirazione, fonazione di creature preistoriche; il gestuale, fantasioso In the bottomless hollow of the winter sky per violino e elettronica di Mirjam Tally (compositrice estone, allieva di Lepo Sumera e di Luca Francesconi) si basava invece su registrazioni di tecniche del violino barocco e su un frammento di una poesia di Kristiina Ehin, giocando su piccoli disegni ripetuti, meccanici, del violino, e su una parte elettronica che li riecheggiava con effetti incandescenti.
Il norvegese Ensemble Cikada ha presentato tre autori con i quali ha lavorato a stretto contatto negli ultimi anni. Di Francesco Filidei ha eseguito Corde Vuote (2010) per trio d’archi, pezzo impalpabile e danzante, con bolle di suono che sembravano evocare il suono di un’antica ghironda; e la prima mondiale di Three Songs Without, delicata girandola di gesti strumentali, morbide cellule ripetute, effetti cigolanti, echi di carillon, che si coagulavano in ampie frasi, come variazioni sempre più fiorite e movimentate. Nel materico Winding Bodies: 3 knots dell’australiana Liza Lim, gli archi e il pianoforte erano preparati con fili legati alle corde, che venivano tirate generando un bordone rauco, ricco di armonici come un lion’s roar (usato alla fine del pezzo), le percussioni creavano una trama grattata, stridente, distorta, piena di risonanze metalliche, gli strumentisti spesso parlavano sottovoce sui suoni prodotti. Dell’islandese Anna Þorvaldsdóttir hanno eseguioto Ró (calma) uno dei suoi pezzi più famosi, ipnotico, atmosferico, dominato da una pulsazione periodica, innescato da un lungo bordone che gli conferiva da subito un’intonazione drammatica, punteggiato da piccoli disegni risonanti. Un bel lavoro della Þorvaldsdóttir (vincitrice nel 2012 del Nordic Council Music Prize, e divenuta famosa col cd Aerial pubblicato dalla Deutsche Grammophon nel 2014, che contiene anche l’incisione di Ró) è stato eseguito anche nel concerto finale del festival, con la Reykjavík Chamber Orchestra diretta da Rúnar Óskarsson: Aequilibria (2014) evocava il respiro della natura, con trame siderali, di grande seduzione, fatte di processi di espansione e contrazione, di superfici che da traslucide diventavano opache e viceversa. Il concerto era completato da due lavori dal carattere ritmico, minimal, un po’ jazzy, che rappresentavano molto bene l’altra anima della musica contemporanea islandese: Roto con moto (1999) di Hlynur Aðils Vilmarsson e Enigma (2016) di Guðmundur Pétursson, puntillistica fantasia per chitarra elettrica e orchestra da camera.
Un taglio più teatrale e concettuale avevano infine i lavori eseguiti dall’estone Ensemble U. Immerso nel buio totale, Eyja (2012) di Þuríður Jónsdóttir – compositrice che è stata anche allieva di Franco Donatoni e di Alessandro Solbiati e che intreccia spesso nei suoi lavori esecuzione strumentale e performance teatrale – dava forma teatrale a pensieri banali, quotidiani, letti dal direttore, mentre gli strumentisti, mescolati tra il pubblico, si muovevano per la sala e suonavano illuminati da piccole torce. In Helmut (2013-2017) del danese Jesper Pedersen l’interprete spezzava dei rametti, e a quei suoni erano associati nomi di note, recitati con espressioni diverse – ironico riferimento a Lachenmann, che pretendeva che anche dei rametti spezzati avessero una precisa altezza. In Sculpture #3 (2011) di Þráinn Hjálmarsson un video dove si muovevano linee verticali, orizzontali, e dei cerchi, serviva da partitura ai sei strumentisti che suonavano nel momento in cui le linee si sovrapponevano, generando così una trama ritmica complessa e imprevedibile. Un forma estrema e raggelata di teatro musicale era quella di longitude (2014) di Davíð Brynjar Franzson, lavoro per cinque strumenti ed elettronica su un libretto di Angela Rawlings, fatto di fasce sonore gravi, spazializzate, lente e avvolgenti, punteggiate da effetti violenti, come di scariche elettriche. Tra le istallazioni Triangular Mass(2016) del danese Niels Lyhne Løkkegaard, che giocava sull’effetto ipnotico di 50 triangoli suonati come un gigantesco, lento arpeggio, tra le scalinate dell’Harpa; e Ear Action di Neele Hülcker & Stella Veloce, concepito come un percorso attraverso diverse modalità percettive, che terminava con una performances suonata direttamente sulle cuffie antirumore sulle orecchie dell’ascoltatore, usate come risuonatori.
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