di Attilio Piovano
Vero e proprio evergreen, i Carmina Burana di Carl Orff, si sa, continuano a sedurre le platee di tutto il mondo, con la vis propulsiva dei loro ritmi, spesso percussivi ed energici a suggerire un’ambientazione quasi ancestrale, primordiale; ma anche con la suggestiva allure di non pochi passaggi onirici, dalle atmosfere tenui e delicate sottolineate da una strumentazione cristallina che ne esalta il carattere quasi ipnotico.
Orff, nonostante abbia prodotto svariate altre opere di dissimile natura e di varo genere, specie sul versante teatrale – pur partito da posizioni simboliste debussian-maeterlinckiane poi abbandonate – di fatto è passato alla storia principalmente (se non quasi unicamente) per questa sua partitura: il tentativo di replicarne il successo con i successivi e per certi versi comparabili Catulli Carmina (1943) si rivelò infatti fallimentare. Idem dicasi del terzo pannello di una vera e propria trilogia, costituita dal Trionfo di Afrodite (1953).
Comunemente eseguiti in forma di concerto, con coro, voci bianche e solisti, i Carmina Burana (1937) in realtà vennero immaginati dall’autore per essere rappresentati: non a caso il sottotitolo di questa partitura tanto monumentale quanto fondata su procedimenti compositivi per certi versi elementari (stante la loro ripetitività e l’esibita simplicitas degli assunti armonici e melodici) recita espressamente: «Cantiones profanae cantoribus et choris cantandae comitantibus instrumentibus atque imaginibus magicis». Sicché coreografarli proponendoli in forma di balletto appare non solo del tutto plausibile, bensì altamente auspicabile. È quanto ha fatto Ilya Jivoy creando per il Balletto dell’Opera di Tbilisi (direttore artistico: Badri Maisuradze), spettacolo di innegabile efficacia, andato in scena nell’ottobre scorso nella città georgiana ed ora approdato al Regio di Torino, per la prima volta al di fuori dei confini, per ben sei recite (4-11 dicembre 2022). Uno spettacolo coinvolgente, quello immaginato da Ilya Jivoy, che, innervato di «energia allo stato puro», non a caso, sin dall’apertura del velario, suscita vivaci emozioni affascinando lo spettatore; in esso il coreografo, per sua esplicita ammissione, ha inteso incentrare (molto opportunamente) l’attenzione su quello che egli ritiene «il tema più importante di tutti – sono parole sue – vale dire la volubilità e l’inesorabilità del destino umano, i suoi movimenti ciclici predeterminati, l’alternanza di alti e bassi nella vita». Ne emerge «uno spettacolo che parla del destino [per l’appunto], del suo senso o della sua assurdità, delle voci magiche dentro ciascuno di noi, della ricerca dell’eterna felicità, dello scopo della vita e del valore inestimabile dell’anima umana».
Poco più di un’ora durante laquale l’attenzione dello spettatore non viene meno per un solo istante: grazie alla bravura e al notevole livello tecnico del corpo di ballo diretto da Nina Ananiashvili e, in primis dei solisti. E così i ventiquattro testi poetici, impregnati di spirito goliardico e fitti di esplicite allusioni sessuali (desunti dal codice del XIII secolo ritrovato presso il convento bavarese di Benediktbeuren) e che, come noto, mescolano abilmente latino alto medioevale, tedesco e francesi arcaici, effetti onomatopeici e altro ancora in un singolare ed equilibrato mix, vanno dipanandosi con souplesse e naturalezza, alternati ad alcune squadrate danze strumentali.
Ad accompagnarli un impianto scenico di estrema semplicità visuale e nel contempo di notevole arditezza tecnica, vale a dire un unico simbolico ‘cerchio magico’ tempestato di led che ora s’abbassa fin quasi sulle teste dei danzatori, ora si solleva, ora s’inclina proiettando sui protagonisti fasci di luci talora calde, talaltra più sfumate. Si aggiungano i sapienti movimenti scenici del coro, inizialmente posto sul fondo (collocazione che comporta talora, ahinoi, qualche piccolo e inevitabile problema di intesa) e poi protagonista ai lati dei danzatori. A dar rilievo al tutto e a movimentare lo spettacolo non solo e non tanto l’uso di un ponte mobile sul fondo, quanto soprattutto le sapienti luci di Konstantin Binkin, ora dai toni pastello, ora soffuse, ora più livide. Lineari e pur efficaci i costumi di Sonya Vartanyan con la contrapposizione di bianco-avorio per le tre vergini, quasi mimesi delle tre Grazie del Canova (e danzano sulle punte), al nero e al rosso fuoco allusivo a labbra e passione, laddove (In trutina) il testo impregnato di esplicita sensualità allude allo scivolare inesorabile e ben consapevole della fanciulla verso le gioie della carne (lascivus amor), sottoponendosi ad un giogo che pur tuttavia è soave, rispetto alla scelta della pudicitia (castità). E pare in anticipo rispetto alla mozartian-dapontiana Zerlina, in dubbio se cedere o meno (Vorrei e non vorrei / mi trema un poco il cor) ma poi recisamente orientata nella scelta (Andiam andiamo mio bene / a ristorar le pene). Sorprendente avvalersi di sole figure maschili allorquando si allude all’indugiare di una puellula con il suo innamorato entro una cellula, ed al loro prevedibile abbandonarsi all’amplesso (Si puer cum puellula moraretur in cellula), ma è un dettaglio.
Da citare i ballerini solisti, e si trattava di Alina Somova, Oscar Frame, Papuna Kapanadze, Mari Elo (ammirati la sera del 6 dicembre, per il Turno A); e ancora Kaito Hosoya, Giordano Bozza, Ekaterine Makhachashvili, Tatia Jashiashvili, Elene Gaganidze nonché l’intero corpo di ballo impegnato in un balletto che alterna tratti ‘moderni, sempre armoniosi e lungi da certe spigolose asperità (danzatori e danzatrici a piedi nudi), ad allusioni intenzionali al mondo classico, non senza qualche piccolo tocco di humour. Ed ora le voci soliste che si muovevano sul palcoscenico accanto a danzatori e masse corali: il soprano Alina Tkachuk ha destato brividi in Ave Formosissima, quasi blasfema e pur godibile parodia delle Litanie alla Vergine (ma in questo caso si tratta di Blanziflor et Helena), meritatamente applaudita (ma perché mai vestita di nero in Stetit puella rufa tunica dalle conturbanti allusioni?). Bene poi anche il baritono Bogdan Panchenko che nella parodia del sacerdote officiante (Ego sum abbas Cucaniensis) è parso tuttavia fin troppo sobrio e serioso. Così pure vocalmente a posto il tenore Vladyslav Gorai, ma anche in questo caso, nel celeberrimo e spassoso passo in cui narra di essere stato un cigno ed ora è ormai sulla tavola dei commensali, pronto per essere sgranocchiato, avrebbe potuto/dovuto osare assai di più, giocando coi falsetti e via elencando: si è preso forse fin troppo sul serio, verosimilmente per non calcare sul lato squisitamente musicale e lasciare spazio al (prevalente) lato visivo dello spettacolo.
Bene il coro del Regio, come sempre ottimamente istruito da Andrea Secchi, nonostante quelle iniziali difficoltà di intesa con direttore ed orchestra cui si alludeva, dovute all’infelice e pur inevitabile collocazione arretrata; molto bene ancora una volta il Coro di Voci bianche del Regio affidato alle non meno sapienti mani di Claudio Fenoglio.
In gran forma l’Orchestra del Regio, spesso assai esuberante sul piano per così dire ‘fonico’, a tratti perfino un filino ‘sopra le righe’ (tanto da far sospettare un’amplificazione). Sul podio Zaza Azmaiparashvili dal quale invero ci si sarebbe aspettati qualche raffinatezza in più ed una maggior cura dei dettagli. Dinamiche sempre piuttosto lussureggianti e sovraesposte (spesso decisamente troppo), mai un vero pianissimo, tempi sciolti e scorrevoli, ma in qualche caso anche un po’ ‘tirati via’ dove qualche indugio non avrebbe fatto male. Ciò non ha impedito il godimento pieno dello spettacolo che, a fine serata, raccoglie vasti consensi e un sincero successo, salutato da lunghi, meritati applausi.