di Gianluigi Mattietti
Il festival MaerzMusik di Berlino, firmato dal nuovo direttore artistico Kamila Metwaly e dal curatore ospite Enno Poppe, si è aperto quest’anno con uno spettacolo di musica e teatro che ha lasciato il segno, svelando una delle direzioni più interessanti che ha preso in questo secolo la musica contemporanea, per il carattere performativo, le connotazioni di tipo sociale, gli elementi di cultura popolare e di vita quotidiana integrati nel processo compositivo.
Alla Haus der Berliner Festspiele, il Nadar Ensemble ha eseguito Hide to Show di Michael Beil, terzo lavoro realizzato dal compositore tedesco per l’ensemble belga, dopo Exit to Enter (2013) e BLUFF (2015), e il più ampio, messo in scena per la prima volta nel 2021. Come in altri lavori, Beil ha mescolato esecuzione dal vivo, riprese video ed elettronica, giocando sul confine tra performance dal vivo e realtà virtuale, sottolineando la spersonalizzazione e i paradossi propri della finzione digitale e delle tecnologie di registrazione, e aprendo così nuove prospettive d’ascolto. Attingendo materiali dal vasto mondo di Internet, con il suo flusso infinito di meme, cover, imitazioni e parodie, ha incentrato l’attenzione su un principio cardine dei social media, che spingono a modificare le proprie apparenze, a occultare errori e fallimenti, a creare avatar e “profili” sempre perfetti e di successo.
I musicisti dell’ensemble apparivano all’interno di sei box chiusi, come fossero nel backstage preparandosi per l’esibizione, suonando qualche nota, cambiandosi d’abito (con colori sempre diversi), accennando dei passi di danza. Questi piccoli pattern musicali-gestuali diventavano gli ingredienti musicali dello spettacolo, venivano filmati e riprodotti, usati come meme autopropagantisi, si mescolavano con le esibizioni sul palco, in un gioco di combinazioni modulari che produceva continue distorsioni dell’immagine (visiva e sonora) generando un labirinto di nuove prospettive e accentuando l’ambiguità tra reale e virtuale. Molto efficace l’idea di chiudere i box con delle tende veneziane, che quando erano sollevate permettevano di vedere il musicista all’interno, quando erano abbassate diventavano schermi per le proiezioni, ma permettevano anche di giocare tra esecuzione reale e filmata orientando diversamente le lamelle. Nella musica si mescolavano anche echi dalla scena New Beat in Belgio, una parodia di In My Room dei Beach Boys, una canzone popolare finlandese, Ievan Polkka (la polka di Eva) divenuta nota in TV grazie a un gruppo vocale a cappella, i Loituma (www.youtube.com/watch?v=Zcg66Qcwjw8), poi diffusasi in Giappone, e coverizzata da Hatsune Miku, una “vocaloid” virtuale (il suo nome è il risultato ottenuto dall’unione di “hatsu” – primo, “ne” – suono, e “miku” – futuro, che può essere tradotto quindi come “prima voce del futuro”), che canta e danza con un porro in mano (per il gioco di parole tra “negies” – il firewall del sistema operativo, e “negi” – porro) (www.youtube.com/watch?v=widZEAJc0QM). Il risultato era un mix esilarante e iperreale di suoni e proiezioni, accuratamente coreografato, culminante in una danza con lancio di porri, magnificamente interpretato dai musicisti del Nadar, che ha incantato il pubblico.
Nell’’ampia offerta del festival berlinese non c’erano solo concerti, ma anche incontri, vari generi di perfomance, istallazioni. C’era una mostra sulla musica di protesta nelle Filippine (Lakbayan. Voices of Resistance from the Philippines), con materiali provenienti dalla collezione di Dang a Dang Radio e di altre organizzazioni progressiste. Nel ciclo “Grenzraum HÖREN”, concepito come uno studio collettivo sui limiti dell’udito e sugli spazi che si possono creare estendendo la percezione uditiva, l’ensemble PHØNIX16 ha eseguito voice, books and fire II (1993) di Jakob Ullmann, ai limiti dell’inudibile, e Sonic Meditations (1973) di Pauline Oliveros. Una solista d’eccezione come Claire Chase ha eseguito il celebre e incantatorio Sex Magic (2020) di Liza Lim, rituale per ocarina, flauto contrabbasso, elettronica e percussioni, che per la compositrice rimanda a «una logica culturale alternativa del potere femminile come connesso ai cicli dell’utero, ai poteri di creazione della vita del parto, alla temporalità del corpo che cambia pelle e sincronizza il mondo e il centro dell’utero come sito di saggezza divinatoria». On Being Human as Praxis era un progetto di musica e danza basato sugli scritti della giamaicana Sylvia Wynter, che riflette su come la razza, la geografia e il tempo insieme informino ciò che significa essere umani. Da qui il contralto Elaine Mitchener ha ideato questo spettacolo, insieme all’ensemble MAM (manufaktur für aktuelle musik) e al coreografo-regista vietnamita-americano Dam Van Huynh, invitando cinque compositori a comporre dei lavori per voce, ensemble ed elettronica ispirati ai testi della Wynter. The Problem With Humans di Jason Yarde, Gasping for air / considering your purpose / Dissolving di Matana Roberts, White Radiance di Laure M. Hiendl, e i due pezzi decisamente più interessanti, The Rule is Love di Tansy Davies e H. narrans di George Lewis, sono stati eseguiti senza soluzione di continuità. Purtroppo apparivano assai deboli i momenti di raccordo tra i pezzi, così come le parti danzate che si intrecciavano con i movimenti degli strumentisti sulla scena, disomogenea la qualità dei cinque lavori e non eccelso il livello dell’interpretazione musicale, producendo come risultato uno spettacolo pretenzioso e sfilacciato.