La Sagra Musicale Malatestiana di Rimini ha presentato “La morte di Virgilio – Chant après chant”, inedita versione scenica di un fondamentale lavoro di Jean Barraqué
di Patrizia Luppi
Uno sguardo agli ultimi decenni di programmazione musicale ci fa constatare come Pierre Boulez, con il suo smisurato talento e la sua personalità altrettanto ponderosa, volente o nolente abbia fatto in pratica piazza pulita dei compositori francesi della sua generazione. Tra questi, il più ingiustamente dimenticato è probabilmente Jean Barraqué, nato nel 1928 e scomparso a soli 45 anni nel ’73: benissimo ha fatto la riminese Sagra Musicale Malatestiana a riproporne un pezzo fondamentale, quello Chant après chant che avrebbe dovuto far parte di una serie di dodici brani ispirati a Der Tod des Vergil (La morte di Virgilio), fluviale romanzo dell’austriaco Hermann Broch. Di alto livello l’esecuzione musicale diretta da Francesco Libetta, degno di discussione l’esperimento tentato dalla Sagra con un’inedita versione scenica del lavoro affidata a Cesare Ronconi, esponente di punta del teatro di ricerca italiano.
Quasi coetaneo di Boulez (che è del 1925) e come lui allievo di Olivier Messiaen, Barraqué fu un adepto fortemente critico della serialità, dalla quale non si staccò del tutto ma a cui diede un personale sviluppo con la sua teoria delle “serie proliferanti”, che nascevano da precise operazioni sul materiale seriale di partenza, permettendo al compositore di perseguire la propria poetica di flusso continuo dell’invenzione creativa, di illimitatezza e indeterminazione. Tormentato dalla depressione e dalla malattia, Barraqué si legò in una relazione amorosa al filosofo Michel Foucault, di due anni più anziano. Fu proprio Foucault a introdurlo alla lettura di quello che è considerato il capolavoro del viennese Hermann Broch: Der Tod des Vergil, imponente romanzo pubblicato nel 1945 e incentrato sulla figura del sommo poeta. Come scrisse lo studioso inglese Erich Heller, si tratta di «un capolavoro molto problematico, perché tenta di dare forma letteraria alla crescente avversione dello scrittore per la letteratura»: in effetti il testo tratta delle ultime 18 ore di vita di Virgilio e della sua decisione di bruciare l’Eneide perché non gli sopravviva, contro la volontà dell’imperatore Augusto che non ne permetterà la distruzione.

Fu proprio il conflitto espresso nel romanzo, oltre alla qualità della variegata narrazione che restituisce il lungo monologo interiore del poeta, che convinse Barraqué a costruire la sua più grande opera musicale proprio partendo dal libro di Broch. Dodici erano i brani progettati, ma il compositore riuscì a completarne soltanto tre (in un catalogo che consiste in tutto di sole sette opere): Le Temps restitué per soprano, coro e orchestra, …au-delà du hasard, per quattro formazioni strumentali e una formazione vocale, e questo Chant après chant per sei percussionisti, voce e pianoforte, composto in poche settimane nel 1966 per un concerto delle Percussions de Strasbourg durante il Festival della città alsaziana. Una partitura che il compositore stesso voleva «austère, dure, violente, somptueuse, […] stricte, pure, agitée, avare de son expression…» (austera, dura, violenta, sontuosa, … rigorosa, pura, agitata, avara nell’espressione).

Tranne l’avarizia espressiva, contraddetta dalla stretta corrispondenza che più di una volta si stabilisce tra la parola cantata e la trama strumentale, le qualità che Barraqué desiderava sono quelle che contraddistinguono il magnifico lavoro, serrato (23 minuti circa) quanto intenso. Qualità messe in evidenza dalla pregevolissima esecuzione ascoltata al riminese Teatro degli Atti nei giorni 3, 4 e 5 settembre.
Dal pianoforte, usato anch’esso come strumento eminentemente percussivo, offriva un’interpretazione autorevole quanto brillante Francesco Libetta, impegnato con successo anche nel compito tutt’altro che agevole di dirigere dalla tastiera la complessa partitura. Intonazione impeccabile, bel timbro e gestualità efficace per il giovane soprano Sara Gamarro, che si muoveva con scioltezza tra le difficoltà di una linea vocale molto esigente. Strepitosi, senza mezzi termini, i sei percussionisti dell’Ensemble Pleiadi (Gionata Faralli, Filippo Gianfriddo, Christian Hamouy, Roberto Pellegrini, Emiliano Rossi, Pierpaolo Strinna) nell’intrecciare un tessuto strumentale frazionato, segmentato, addirittura polverizzato tra uno stuolo di percussioni estremamente eterogeneo (l’enorme strumentario in dotazione alle Percussions de Strasbourg ai tempi della prima esecuzione: in partitura sono elencati qualcosa come 65 strumenti). Un vero spettacolo vedere il drappello di esecutori all’opera; tornava alla mente lo Stravinsky delle lezioni americane raccolte nella Poetica della musica, quando affermava che «la musica non si muove nell’astratto, la sua traduzione plastica richiede esattezza e bellezza». Qualità, queste, che l’esecuzione riminese di Chant après chant possedeva appieno, in una dimensione visuale così ricca da appagare l’occhio oltre che l’orecchio.
È evidente che il compito, per l’uomo di teatro che volesse tentare una versione scenica di un pezzo di così alta concezione e dalla spettacolarità così connaturata, si presenta molto difficile. Il regista Cesare Ronconi, fondatore con la poetessa e drammaturga Mariangela Gualtieri di un gruppo di ricerca noto e apprezzato come il Teatro Valdoca, ha proposto una lettura dinamica, evocativa, fantastica, non di rado ermetica, com’è nelle sue corde. Pochi gli oggetti in scena: un letto di legno africano, il disco di una parabola posato a terra come una conca, un Revox degli stessi anni della prima esecuzione di Chant après chant. In primo piano, Ronconi (autore anche di luci, scene e costumi) ha posto lo spazio della rappresentazione, dietro un velo i percussionisti, ancor più lontano e più in alto la cantante e il pianista. Un attore dalla fisicità possente, Leonardo Delogu (nella foto in testa all’articolo), avvolto in un lungo sudario che diventava strascico, lenzuolo, sentiero, impersonava Virgilio squassato dagli incubi in un sonno tormentato, mentre con estrema grazia l’esile Muna Mussie, il seno acerbo nudo, ricopriva il ruolo muto del fanciullo Lisania caro a Virgilio, figura ricca di significati simbolici. Delogu recitava, dal vivo o in playback, stralci del testo di Broch, scelti da Ronconi e Gualtieri senza relazione con le parole usate da Barraqué (dal canto suo, il regista l’aveva puntualizzato: «in questa messa in scena non si parla di sincronismi, ma di semplici pertinenze»), e il parlato andava in più di un caso a sovrapporsi alla musica o addirittura a interromperla: gesto arbitrario che si può ascrivere solo alla volontà di utilizzare la musica stessa come uno dei materiali della rappresentazione, il più importante se vogliamo, ma non tanto da essere accolto nella sua integrità. Una lettura interessante, quella di Ronconi: attenta, ispirata, efficacemente realizzata. Ma un altro spettacolo rispetto alla partitura di Barraqué che, come già sopra abbiamo constatato, è musica che irresistibilmente fa grande spettacolo già da sola.
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