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Il pianista ungherese alla Società del Quartetto di Milano ha proposto un programma dedicato al genere della “variazione”, tra le beethoveniane Diabelli e le Variations Sérieuses di Mendelssohn
di Laura Bigi
Dell’aspetto gentile, pacato e aristocraticamente flemmatico tutto si rispecchia e si legge nel gesto sonoro di András Schiff. Sempre graditissimo ospite alla Società del Quartetto di Milano, questa volta presenta un programma di interesse retorico: Variazioni. Autori e opere selezionati con intelligenza: Mozart, 12 Variazioni su un Thema in si bemolle maggiore (KV 500); Mendelssohn, Variations Sérieuses op. 54; Haydn, Andante con variazioni in fa minore (Hob. XVII.6); Schumann, Thema con Variazioni “Geistervariationen”; Beethoven, 33 Veränderungen über ein Walzer (A. Diabelli) op. 120.
La variazione è una forma della Retorica come arte del dire. Il suo fascino consiste nella copiosità persuasiva, esercitata come strumento della ricchezza di mezzi tecnici nell’esprimere uno stesso concetto. Un’idea singola che si espande cangiante senza mutare nella sostanza: diversi aspetti della stessa medaglia, ripetizione non ridondante, ornata o radicalmente mutata nella forma compositiva, sempre diversamente espressiva. Un modello del comporre tra i più comuni in musica come già nell’oratoria antica, che fu il terreno nel quale si produssero grandi capolavori di stile e spirito, poiché offriva la possibilità, se non esattamente la libertà, di cimentare la propria abilità di creatore di musica coniugandola al piacere di esprimere i diversi caratteri che può assumere il medesimo soggetto ideale. Per alcuni compositori, come Brahms, la variazione diventava allora il primo passo concreto per l’apprendimento di un “mestiere”, cioè verso l’acquisizione della tecnica compositiva in un modo che, nonostante le limitazioni normative, non sacrificasse una buona dose di fantasia. In questo senso i brani in programma sono davvero un’antologia, cioè una raccolta dei fiori tra i più belli della letteratura musicale, dimostrazione di come il genio non tema vincoli di sorta, ovvero di mera forma. E non ci sono dubbi sulla qualità interpretativa che Schiff offre in questa esibizione.
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Possessore della vocazione e della pazienza di cui un concertista abbisogna, cosmopolita di fatto, in Italia (dove vive) è sempre più frequente ascoltarlo in performances molto apprezzate. Il suo caratteristico approccio al pianoforte lo fa amatissimo ovunque, ma particolarmente efficace quando la sua interpretazione incontra certi autori. Mozart certamente. Le sue 12 Variazioni aprono introducendo un clima leggero, salottiero, da ricreazione intelligente, che nel più tipico spirito mozartiano alterna ironia dello stile, impegno tecnico e un poco di quell’umor melanconico che Schiff rende dolcissimo e lieve. Il fraseggio è leggero e scorre con fluidità rara. Perché il suono di questo signore ungherese sa di raffinatezza, di educazione e di discrezione appagante. Così è pure per l’Andante di Haydn. Composto nel 1793 per Babette von Ployer (già allieva di Mozart), la scrittura prende una forma peculiare, bipartita nel tema che oscilla tra maggiore e minore. La pacatezza dei momenti più intensi e la gentilezza delle figurazioni ornate, cromatiche (come quelle della coda) sono i tratti che distinguono il pianismo di Schiff. La penetrazione del testo suggerisce una sensibilità fine e riguardosa che si realizza lontano dalle esagerazioni. Perciò il risultato è particolarmente convincente per le Variations di Mendelssohn e le “Geistervariationen” di Schumann.
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A. Schiff, Geistervariationen, ECM New Series, 2 CD
Fu Charles Rosen nel 1975 a suggerire a Schiff di indagare sul finale (Langsam getragen) della Fantasia op.17 conservato presso la Széchényi Library di Budapest. La preziosa versione contiene infatti le annotazioni a mano di Schumann, ed è presente -in coda all’edizione a tutti nota- in questo doppio compact, insieme ad una selezione di opere: Papillons op.2, la Sonata op. 11, Kinderzenen op.15, Waldzenen op.82 e le Geistervariationen. Schiff è pianista calibrato e signorile, non indaga il singolo dettaglio sonoro privilegiando una lettura d’insieme quasi pre-romantica, senza eccessi o slanci funambolici, ma densa di nobiltà.
Simeone Pozzini
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Mendelssohn suona come un flusso unico, compatto, nel quale lo stile serieux (dove l’occhio storico guarda, secondo alcuni, a Bach e a Beethoven) diventa carattere dominante: serio anche nel senso di riservato, poi austero, a volte sostenuto e accigliato. La seriosità della scrittura è però restituita con quella sofficità delicata che è nel tocco di Schiff. I colori sono acquei in Schumann, per questo lavoro di abbandono visionario e già fuori dal mondo che suggella una delle ultime notti precedenti la morte del compositore. Il tema, scrisse lo stesso autore, gli era stato “dettato dalla voce di un angelo”. L’atmosfera di smaterializzazione, di sussurro calmo, sospeso ma pacificato trova un’eccellente restituzione. La drammaticità dei brani è pari soltanto alla tenerezza con cui viene espressa nell’interpretazione.

Impegno imponente dell’intera seconda parte del concerto sono le celeberrime Variazioni sopra un Walzer di Diabelli. Monumentale ed esorbitante lavoro per naturale inclinazione dello spirito beethoveniano quello tardo, le variazioni furono composte tra il 1819 e il 1823, e le cose, stando alle testimonianze attendibili, andarono più o meno così: Anton Diabelli aveva invitato alcuni (una cinquantina) colleghi musicisti viennesi a cimentarsi ciascuno nella composizione di una variazione su di un suo walzer, danza molto alla moda in quel tempo. Tra i vari Schubert, Czerny, Hummel e Listz unidicenne, anche Beethoven volle dedicarsi alla sfida. Ne uscirono, dopo la pausa compositiva della Missa Solemnis, ben 33 veränderungen come l’autore le battezzò, preferendo questo termine al più usato variationen di origine italiana. Scelta non casuale né banalmente patriottica. Il principio formale della variazione comprende ed esprime un concetto che è vicino allo sviluppo come trasformazione.
La forte ironia, che giustamente Alfred Brendel (e prima di lui molti commentatori beethoveniani) ha letto in questa opera così poco ortodossa, si ingentilisce nelle mani di Schiff, diventa più bonaria ma non meno divertita. Tutto è misuratamente spigliato, brillante in modo chiaro e pulito, tutto scivola con facilità e cordialità fino alle ultime variazioni, forse quelle più intense per carattere intrinseco (29, 30 e 31), quando ormai del ruvido tema diabelliano ci si è scordati. La recente nomina a membro onorario del Beethoven Haus di Bonn (2006) e il secondo Premio Abbiati per l’esecuzione integrale delle Sonate di Beethoven (2007) sono in parte la misura di come l’eleganza calda e rassicurante dell’interprete Schiff sia mezzo efficacemente persuasivo di penetrazione di un autore che, come Beethoven, sempre è stato rappresentato (e talvolta interpretato) solo come gigante titano, infelice ed eroico nel dolore, aspro e burbero nella sua ironia.
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