È andata in scena al Teatro Grande di Brescia l’opera di Nino Rota con la regia di Elena Barbalich. La prima rappresentazione avvenne nel 1955 al Teatro Massimo di Palermo
di Elena Filini
Dolce vita amara, che ha la tinta amarcord di certe vecchie fotografie, dove in insospettabili interni borghesi va in scena la commedia di sempre, quella dell’amore, dei tradimenti, delle passioni, con uno stuolo di parenti serpenti e vicini invadenti. Rota leggero e sornione, Rota cinematografaro e autore compiuto si è ammirato in questo quasi compleanno domenica 4 dicembre al Teatro Grande di Brescia ne “Il cappello di Paglia di Firenze” prodotto dal circuito As.Li.Co con un cast assortito, composto anche dai vicnitori dell’ultimo premio vocale. Di straordinario impatto comico la regia di Elena Barbalich, che nulla lascia all’impronta e tutto muove, come da una rete invisibile e articolata di fili. Strampalata, occhieggiante spesso a Fellini, addirittura messa a cornice da lucine che fanno un po’ Tour Eiffel e un po’ cinema d’essai, la nota visuale è senza dubbio la nota migliore e più felice di questa produzione. Dopo le immagini, questa volta, viene la musica. In buca l’orchestra dei Pomeriggi Musicali si comporta molto bene, rendendo giustizia allo strattonato Nino e alla sua musica colta sin dall’ouverture iniziale.

Si attende poi però invano una smorzatura all’entrata del cast vocale. Perché la concertazione di lavora su grandi volumi mettendo in predicato l’equilibrio buca scena. Il cast, effetto questo amplificato dal luogo ( ma prevedibile soprattutto dopo la recita del venerdì), è generalmente penalizzato. Il problema è in realtà nella partitura: difficile da un lato non lasciarsi sedurre dal sound grottesco e bandistico à la Fellini e altrettanto difficile valutare sempre le caratteristiche del teatro lirico rotiano. Come lo stesso Nino scrisse alcuni anni più tardi, all’inizio degli anni Cinquanta, le sue partiture mettono davvero in gioco le qualità vocali degli interpreti. “Io infatti non mi sognerei mai di scomodare dei buoni cantanti- e buoni devono essere per la mia musica- per… non farli cantare”.E’ vero, l’azione procede come una commedia brillante scatenatissima. Ma la vocalità rotiana è, almeno nei ruoli princiapli, post-pucciniana. Che fare allora? Se, come in questo caso, si predilige l’aspetto visivo, bisogna studiare nuove forme di compensazione. Bene dunque il Nonacourt di Domenico Colaianni, voce che passa l’orchestra e si disimpegna con efficacia nel ruolo di “zotico, ricco ortolano”, felice la recita di Manuela Cucuccio per Anaide e bene le figure di fianco ( Felice, la modista, il caporale delle guardie).

Il soprano Anna Maria Sarra nel ruolo di Elena piace molto in scena ma non convince per la vocalità esile e l’intonazione variabile. Divertente lo zio Vezinet e il Visconte Achille di Raoul d’Eramo e nel complesso convincente Marianna Vinci nei panni della sciantosa contessa. L’ inequivocabile abbaglio della produzione è forse la scelta di Beaupertuis. Filippo Fontana è un baritono dalla fluida e bella emissione, tuttavia scenicamente e vocalmente estraneo al ruolo. Non ha nulla dell’ossessivo, paranoico, tornituante e cornuto marito di Anaide, come almeno ce lo restituirono Paolo Montarsolo o a Mario Basiola jr, il Beaupertuis dell’incisione del 1975 diretta da Rota stesso. Leonardo Cortellazzi sarebbe uno strepitoso Fadinard: impeccabile sotto il profilo musicale, semplicemente perfetto scenicamente e a proprio agio vocalmente. Nella recita di domenica tuttavia il tenore si è amministrato con eccessiva parsimonia (complice forse l’aver intervallato in tre giorni due recite di Cappello ed una, a Treviso, della rossiniana Occasione fa il ladro?). Preciso e spassoso il coro diretto da Antonio Greco (con una menzione speciale per le guardie e il sergente raffreddato di Alessandro Mundula).
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