Il grande pianista ungherese, da tempo residente in Italia, ha interpretato in veste di direttore e solista due concerti con la Chamber Orchestra of Europe
di Attilio Piovano
I nterpretare in una stessa serata ben due Concerti pianistici non è faccenda comunissima oggidì, tutt’altro; in genere gli interpreti ne affrontano uno solo, per vasto e impegnativo che sia, quindi ringraziano, al più, se sono generosi, si concedono ancora, offrendo uno o financo due bis lasciando poi al direttore onere ed onore di terminare in bellezza con la ‘sola’ orchestra. Se i due Concerti in questione sono lontanissimi (e diversissimi) per stile, epoca, linguaggio, ampiezza, caratteri espressivi e quant’altro, insomma, per farla breve, se si tratta dell’ancor poco frequentato, al confronto ad esempio con i Concerti mozartiani (ed è un vero peccato) Concerto in re maggiore Hob. XVIII:11 di Haydn e dello schumanniano (e invece celeberrimo ed eseguitissimo) Concerto in la minore op. 54 ecco che la serata assume il sapore della sfida e ci si appresta ad ammirare l’interprete alle prese con una vera e propria impresa più o meno ciclopica. Se poi l’interprete decide di fare a meno del direttore assumendo egli stesso in prima persona la guida di entrambe le partiture, beh ecco: l’ammirazione è lo stupore sono già al top, prima ancora ch’egli s’avanzi in sala e s’accosti allo Steinway d’ordinanza. E ancora: se l’interprete in questione decide che inframmezzerà i due Concerti dirigendo la Seconda Sinfonia in re maggiore D 125, frutto già originale d’uno Schubert appena diciassettenne, ci sono tutti i presupposti per additare l’eccezionalità dell’evento.
Evento che si è verificato ieri sera a Torino, presso l’Auditorium ‘Agnelli’ del Lingotto per il cartellone dei Concerti del Lingotto. L’interprete in questione? Ma certo, è ora di nominarlo. Si chiama András Schiff ed è oggi uno dei più grandi artisti della tastiera, un musicista coi fiocchi, un musicista a 360 gradi, un vero (e completo) interprete e non già un semplice (pur eccelso) esecutore. Ad affiancarlo la Chamber Orchestra of Europe in forma a dir poco smagliante. Già, perché occorre un’orchestra di caratura non comune per poter affrontare siffatta impresa. E la COE, che ben altre volte abbiamo ammirato, lo è davvero: ottime prime parti, suono trasparente e nitido, affiatamento indicibile, disciplina e rigore, ma anche bel suono e fraseggi appropriati.
E così ascoltare il simpatico Concerto di Haydn è stata una gioia fin dalle prima battute. Schiff – tocco adamantino, tecnica infallibile, uso estremamente sobrio del pedale (appena sfiorato qua e là per ammorbidire una frase, sottolineare un inciso trascolorante come con un tocco di ombreggiatura, e dire che in tanti intorbidano le acque a più non posso anche in partiture settecentesche con troppo pedale, e si sa che fa sempre comodo ed è una facile scorciatoia…) – Schiff, dunque, del Concerto ha evidenziato l‘arguzia sorridente, l’amabile bonomia, più ancora lo humour smaccatamente esibito dall’autore delle ‘Londinesi’, la netta ed aproblematica serenità. Intesa perfetta con la compagine orchestrale e non una sbavatura ritmica. E dire che Schiff, anche laddove non è impegnato alla tastiera, non si sbraccia inutilmente come certuni, talora si limita ad un cenno che dà sicurezza, talaltra ‘lascia’ semplicemente suonare l’orchestra sapendo di contare su professionisti affidabilissimi. Poi è stata la volta dell’espressività leggiadra, a tratti palpitante, del Poco Adagio del quale Schiff & COE hanno restituito al meglio l’affettuosa sensiblerie, cesellando mille dettagli, prima di fiondarsi con scatto felino nelle frasi dell’ingegnoso Rondò all’Ungherese. E qui Schiff, pur mantenendo un suono di ialina trasparenza, non ha temuto di sfruttare al meglio le potenzialità di un moderno gran coda (spazzando via d’un colpo tutte le possibili e talora un poco sterili diatribe dei filologi sulle varie opzioni interpretative di tale pagina con il clavicembalo o il fortepiano ovvero il pianoforte); e ciò è avvenuto ad esempio laddove ha scelto di evidenziare con robuste sonorità quei passi ‘rumorosamente’ zingareschi (o turcheschi, che per i metri dell’epoca è la stessa cosa) uno in particolare, passi di cui il Rondò è mirabilmente costellato. Sicché non si sapeva se ammirare maggiormente la freschezza impertinente delle acciaccature d’esordio o la robusta, ruvida e talora fin rustica allure popolareggiante di certi passi. Un vero trionfo, salutato da applausi calorosissimi.
Altrettanto calorosi gli applausi sono sbocciati copiosi dopo Schumann: Concerto del quale Schiff non solo focalizza perfettamente lo stile, nel contempo ne reinventa per così dire l’impianto generale: lumeggiandone soprattutto il lato Biedermeier, e allora ecco la bellezza inarrivabile dei passi lirici, quelle oasi dilaganti meravigliosamente già nel primo tempo che sono veri e propri intermezzi, squarci cantabili di notturnistica iridescenza, posti a reagire con lo scatto nervoso di altri scintillanti passaggi, giù giù sino all’attacco (memorabile) del finale. Grandi emozioni anche nella cadenza, di cui Schiff ha posto in luce la vasta tessitura (anche polifonica). Se in minima parte un’esecuzione senza direttore (e con un’orchestra da camera) sacrifica qualcosa quanto a ondate sinfoniche, quanto a enfasi timbrica (e il dato appare evidente soprattutto nell’ultimissima parte, del Concerto, con quel tira e molla tra lirismo e turgido sinfonismo), per contro una simile visione ha il pregio di mettere a fuoco il lato cristallino della scrittura schumanniana, riannodandone le fila con la tradizione tastieristica. La presenza poi di un solo interprete (alla tastiera ed in veste di direttore) presenta il vantaggio di un’unica visione interpretativa, evitando il collidere (talora stimolante, certo, ma più spesso fonte di frizioni se non addirittura imbarazzante) tra due entità umane ed artistiche (un pianista ed un direttore) qui ‘fuse’ in un unico demiurgo. Che al termine della partitura schumanniana ha inteso congedarsi con le prelibatezze del brahmsiano Intermezzo in mi bemolle maggiore op. 117 n° 1, di cui ha rilanciato tutta la tenerezza malinconica, umbratile dell’ultimo Brahms, il Brahms autunnale, ma anche la raffinata scrittura, con quel canone nella mano sinistra nella parte finale e quella mestizia un poco frale della più cupa zona mediana: a dir poco sublime.
Grandi emozioni anche con la Seconda di Schubert: Schiff ha fatto del suo meglio per attutire (in parte riuscendoci) le obiettive ridondanze del debordante Allegro vivace: puntando soprattutto sul gioviale brio del tema principale, sorta di sapido moto perpetuo in punta d’arco, come una corsa a perdifiato, ma aerea e leggera, memore del Finale della Quarta di Beethoven scritta nella stessa tonalità (e così pure delle Creature di Prometeo), vero e proprio consapevole duplice hommage, se non quasi una pseudo citazione, ascoltare e raffrontare per avvedersene. La partitura schubertiana soffre inoltre di un certo qual squilibrio, ed ecco che l’Andante con Variazioni è uno sguardo retrospettivo a Haydn (e Schiff, che dirige senza bacchetta con gesto chiaro, misurato ed efficace, sempre funzionale) pareva additare al pubblico i legami col Concerto eseguito in apertura, poi il breve e corrusco Minuetto (dal delizioso Trio inaugurato dall’oboe) e da ultimo il divertissement del Presto, che si inaugura con un soffio, di cui Schiff ha additato le armonie ingegnose, ormai proiettate sul futuro. E dire che Schubert aveva solo diciassette anni quando compose tale Sinfonia. Eppure l’Incompiuta e la Grande (pur orientate su ben altre temperie) a ben guardare (e ad ascoltare con cura, tra le pieghe del discorso) paiono ormai quasi dietro l’angolo. Grande Schubert. E grandissimo Schiff.
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