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Con la direzione di Iván Fischer (violino solista Pinchas Zukerman) l’orchestra ha eseguito pagine di due colossi tedeschi: Ludwig van Beethoven e Richard Strauss
di Monika Prusak
E sistono composizioni conosciute e amate che, nonostante la fama, provocano sempre una forte emozione, e altre che pur celebri ma più impegnative nascondono in sé momenti di notevole fascino che solo un interprete di alto livello riesce a trasmettere al pubblico. Il concerto dell’8 maggio scorso, che ha portato al Teatro Massimo di Palermo la Budapest Festival Orchestra diretta da Iván Fischer con il violinista Pinchas Zukerman, ha creato, volutamente o meno, una sorta di duello tra giganti tedeschi della composizione: Ludwig van Beethoven e Richard Strauss. Quattro brani in programma, due per ciascun compositore, hanno rafforzato questa impressione, avvalendosi dell’impiego del violino solista (anche se in due dimensioni totalmente differenti), e di tanta, tantissima tensione, nel primo caso più drammatica, nel secondo piuttosto sentimentale.
Fischer in Also sprach Zarathustra, ottiene con gesti ampi un forte davvero imponente, robusto e sonoro, e lo contrappone ad un piano quasi magmatico: il suono cresce fino all’estremo per poi cadere in un abisso semisilenzioso di terrore
Il concerto è iniziato con l’Ouverture “Coriolano” in Do minore op. 62 di Beethoven, nella quale la Budapest Festival Orchestra ha da subito presentato un elevato livello artistico e un’omogeneità sorprendente. Iván Fischer tiene la musica letteralmente “nelle mani”, il gesto denso e allo stesso riservato non ha bisogno di tanta ampiezza per esigere le più svariate sfumature. Il direttore e l’orchestra sono un unico strumento dal timbro prezioso e omogeneo. Stupisce la sicurezza nelle gradazioni dinamiche, dal piano che canta liricamente, al crescendo mozzafiato e al deciso e robusto forte. Fischer evidenzia la drammaticità intrinseca della musica di Beethoven, che si farà sentire ancor di più nel seguente Concerto per violino e orchestra in Re maggiore op. 61, esaltata dall’interpretazione di Pinchas Zukerman. Il violinista sceglie tempi tranquilli, concedendosi ampi respiri e rilassatezza, che tuttavia sfiorano l’eccesso nel movimento lento del Concerto. Incanta la purezza cristallina del suono nostalgico di Zukerman che, nonostante un abbondante vibrato, coinvolge e commuove, sia nel registro acuto, sia in quello grave dal colore caldo e profondo. Fischer sottolinea lo strazio di Beethoven, esaltando l’orchestra nelle parti del tutti e nascondendola invece nei momenti in cui la parola appartiene al solista. Zukerman si mostra modesto, nascosto dietro il suo violino, mentre lo strumento esprime con tutto l’orgoglio la sua meravigliosa versatilità, che può essere rivelata solo nelle mani di un grande interprete. Il Concerto culmina nell’ultimo movimento, il famoso Rondò, in cui tra l’orchestra e il solista nasce una particolare sinergia.

Ascoltare Strauss (Richard!) dopo Beethoven è di un forte e inaspettato impatto: le differenze tra i due compositori colpiscono e sconvolgono allo stesso tempo. Come si è detto la tensione è alta in entrambi, ma Beethoven si mostra estremamente classico rispetto all’esuberanza tardo romantica di Strauss. L’orchestra parte con il Walzerfolge n. 2 TRV 227a da Der Rosenkavalier op. 59, che dona un’immediata sensazione di leggerezza, togliendo l’inquietudine della prima parte del concerto. Siamo in un mondo diverso e anche la direzione di Fischer si trasforma: il gesto è meno contratto, ma rimane sempre discreto ed elegante. Si avverte molto la differente strumentazione che, grazie a numerosi strumenti di percussione (tra cui tamburino, triangolo e tamburo a rullo), sottolinea il carattere festoso e gioviale della composizione. L’orchestra gioca con i timbri, l’esecuzione si tinge di colori più chiari e di articolazioni meno pesanti. E così si arriva all’ultimo brano in programma, un must verrebbe da dire, una composizione che va assolutamente conosciuta e ascoltata dal vivo e che risuona per molto tempo nelle orecchie dell’ascoltatore. È Also sprach Zarathustra, poema sinfonico tratto da Friedrich Nietzsche, uno dei più famosi incipit nella storia della musica, anche grazie all’uso che ne fece Stanley Kubrick nel film 2001: A Space Odyssey. Grazie (o per colpa) della divulgazione cinematografica il pubblico conosce poco più oltre l’Introduzione di questa affascinante composizione, che assolutamente merita di essere ulteriormente approfondita.
Non vi è nessun dubbio che la buona riuscita di un’opera musicale dipenda dall’intesa tra il direttore e l’orchestra, e nel caso di Fischer e della Budapest Festival Orchestra ne abbiamo un esempio a dir poco spettacolare. Essi rappresentano un unico organismo ben funzionante: l’Introduzione esplode in un’eccellente trionfo tra dinamiche estreme da fortissimo a pianissimo possibile. Il silenzio assoluto nel pubblico in attesa delle prime note del poema viene ripagato abbondantemente: il possente suono dell’orchestra spiazza letteralmente. Tuttavia non grida, ma dona quel piacevole brivido che si avverte solo all’incontro con un capolavoro. Notevoli gli strumenti a fiato, sia gli ottoni nelle parti più agitate, sia i legni che creano atmosfere oniriche dispiegandosi in trilli e sonorità offuscate. Fischer, usando stavolta gesti più ampi, ottiene un forte davvero imponente, robusto e sonoro, e lo contrappone a un piano quasi magmatico: la musica cresce fino all’estremo per poi cadere in un abisso semisilenzioso di terrore. Non passa inosservata la bravura del primo violino Violetta Eckhardt, che conduce le parti solista con singolare passionalità, avvolta in un suono corposo e coinvolgente. Also sprach Zarathustra fu scritto da Strauss nell’aura tardo romantica piena di sentimento, che a tratti svela interesse per i temi del mondo dei sogni dell’epoca seguente: da un lato presenta un toccante lirismo, dall’altro invece colpisce per le dinamiche estreme, l’uso massiccio delle percussioni e le armonie dissonanti. Tutto questo è presente nell’interpretazione di Fischer che conclude, seguendo Strauss, in sospeso: gli accordi finali non si risolvono, la musica muore lentamente, ma il dubbio rimane.
Le insistenti ovazioni hanno richiamato Fischer ben tre volte e infine lo hanno invitato a eseguire un bis, che ha trovato un legame bizzarro con il resto del programma. Una Polka di Strauss (stavolta Johann!) ha cambiato ulteriormente l’atmosfera, dando a Fischer la possibilità di mostrare una direzione disinvolta e leggera. L’ipotetico concorso non ha prodotto nessun vincitore – è chiaro – ma ha reso evidente il ruolo fondamentale che l’interpretazione gioca nella percezione di ogni opera musicale, e come un programma apparentemente impegnativo possa apparire accessibile al pubblico se eseguito con precisione e passione.
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