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Concerti • Il pianista ungherese esegue al Conservatorio di Milano il ciclo integrale delle “Sonate” per la Società del Quartetto. Di rara ricchezza, impegnativa e molto applaudita la serata inaugurale
di Luca Chierici
Un grande applauso di stima ha accolto ieri sera András Schiff appena entrato in sala per il concerto inaugurale dedicato al ciclo integrale delle Sonate di Beethoven, organizzato dalla Società del Quartetto per i prossimi tre anni. A dire il vero questo ciclo lo avevamo ascoltato non molto tempo fa (1999-2002, a cura delle Serate Musicali) dalle mani dello stesso pianista, nella stessa sala e con la stessa scelta per quanto riguarda l’utilizzo di due pianoforti dalla meccanica e dalla timbrica differente. Forse una più corretta programmazione avrebbe potuto evitare duplicati così appariscenti per una città pur ricca di tanti appuntamenti musicali. Ovviamente le scelte di fondo del bravissimo pianista ungherese non sono variate in questo breve lasso di tempo.
Schiff si conferma come lettore attentissimo al segno e soprattutto alla resa di ogni particolare anche a costo di imporre una scansione più lenta di quanto certa tradizione basata sui metronomi originali abbia tramandato. La velocità è d’altro canto un parametro assai discutibile nell’interpretazione di questi capolavori ed oggi è possibile ascoltare pianisti contemporanei di grande prestigio (da Pollini, Brendel a Barenboim, Lupu eccetera) avvicinarsi a Beethoven attraverso scelte assai differenti. Quel che importa è la coerenza dell’impostazione e il risultato che si vuole ottenere, e in tal senso la lettura di Schiff è veramente esemplare. Avvalendosi del suono di un Bechstein d’annata o di un Bösendorfer e utilizzando il pedale di risonanza in misura molto limitata, il pianista mette in luce della scrittura beethoveniana un senso delle proporzioni e delle sonorità davvero quartettistico ed evita tra l’altro il pericolo di una post-datazione di esemplari che, non lo dimentichiamo, furono concepiti ancora negli ultimi anni del secolo diciottesimo. È evidente che da una lettura così analitica possano scaturire particolari sui quali non si era meditato abbastanza: uno per tutti, la transizione che nella penultima pagina della Sonata op. 7 porta, attraverso il passaggio di semitono da si bemolle a si naturale, a raggiungere la lontana tonalità di mi maggiore. In quel caso Schiff ha prolungato la corona di sospensione ricordandoci un luogo analogo presente nella Fantasia in Do di Haydn, scritta otto anni prima. Si tratta sicuramente di un omaggio dell’allievo nei confronti del maestro, cui Beethoven aveva dedicato le Sonate dell’op. 2. Per il resto Schiff è anche uno di quei pianisti che rassicurano lo spettatore per il tramite di una correttezza esecutiva che permette la concentrazione massima nell’ascolto. Un incidente di percorso nel finale dell’op. 2 n. 3 “doesn’t detract”, come dicono i filatelici britannici per indicare alcune piccole mende che non diminuiscono il valore di francobolli molto rari. Il rispetto di tutti i ritornelli ha imposto una durata complessiva del concerto che, compreso l’intervallo, si aggirava sulle due ore e mezzo: un cimento arduo anche per il pubblico che alla fine ha comunque premiato il grande artista con interminabili ovazioni.
Spontaneamente, Schiff ha suonato come bis due Preludi e fughe dal secondo libro del Clavicembalo ben temperato, unico commiato possibile per una serata già così ricca di proposte intellettuali.
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