Concerti • In apertura della nuova stagione dell’orchestra milanese, il direttore inglese è salito sul podio per un programma dall’impaginazione curiosa, illustrato con gesto e partecipazione straordinari
di Luca Chierici
U n buon successo ha accolto la riapertura della stagione della Filarmonica della Scala sotto la direzione di un beniamino del pubblico italiano, quel Daniel Harding che è stato capace negli ultimi anni di attirare l’attenzione innanzitutto attraverso la serietà e la professionalità che gli sono tipiche, ma anche grazie a un rapporto privilegiato con i media che gli hanno cucito addosso una accattivante immagine di bravo ragazzo tutto musica e famiglia e soprattutto al passo con i tempi. Il percorso artistico di Harding, per quanto riguarda il repertorio da lui scelto, è abbastanza curioso perché mostra un interesse esplorativo molto ampio, che va da Bach ai contemporanei, con alcune evidenti preferenze verso Schumann e, dettaglio tutt’altro che trascurabile, verso il repertorio per violino solista e orchestra. Non è facile spiegare – riserviamo la domanda per qualche prossima intervista, ne concede spesso e volentieri – l’interesse di Harding molto limitato verso il pianoforte e al contempo l’inclusione nei suoi programmi di Concerti e pagine di vario genere che hanno come protagonista il violino, sia esso lo strumento di Isabelle Faust o di Zimmermann, di Capuçon o Tetzlaff. Conoscete voi un giovane direttore d’orchestra che abbia in repertorio il violino di Bartók, Beethoven, Berg, Berlioz, Brahms, Bruch, Dvořák, Mendelssohn, Ravel, Schumann, Sibelius e persino Vieuxtemps e Ysaÿe?
Il concerto di ieri sera mostrava una impaginazione curiosa ma non raffinata (quali i legami tra la Maurerische Trauermusik K 477 di Mozart e Heldenleben di Strauss o il Preludio e morte d’Isotta?) e il programma è stato illustrato con una abilità di gesto e di condivisione dei risultati con l’orchestra davvero impressionanti. Harding, che già aveva affrontato la K 477, ha evidenziato giustamente in Mozart il fascino timbrico degli strumenti a fiato “massonici”, ma ha anche sottolineato la straordinaria modernità di una composizione di sole cinque pagine dove il materiale tematico frammentario, il valore dei silenzi, la presenza sotterranea del cantus firmus contribuiscono a edificare un monumento funebre di fascino estremo. Con un capovolgimento totale di valori e di atteggiamenti, il pubblico è stato poi catapultato verso il delirio di sensualità rappresentato dall’estratto operistico wagneriano per antonomasia. E qui Harding ha mostrato una partecipazione intima, convinta, verso l’accumulazione quasi insostenibile di passioni e di espressione musicale che nell’Isoldens Liebestod tocca un vertice assoluto.
Ma la seconda parte del programma merita un altro tipo di commento. La dedizione “storica” di Harding verso il repertorio novecentesco sembra oggi prendere una piega diciamo così involutiva. L’interesse originale verso Bartók e Dallapiccola, Britten e Mahler ripiega oggi con evidente frequenza verso un’attenzione particolare a Richard Strauss, del quale il direttore inglese dirige spesso le due “Suites” tratte dal Rosenkavalier e dalla Frau ohne Schatten e la Sinfonia delle Alpi, che sostituiscono precedenti interessi rivolti a partiture ben più importanti come Don Juan, Salome, Tod und Verklärung, i Quattro ultimi Lieder. Non vogliamo qui riaprire antiche diatribe che ci riportano ai tempi in cui nel nostro paese gli unici manuali dedicati alla guida al repertorio sinfonico utilizzavano spesso e volentieri per Strauss l’aggettivo “pletorico”, ma con tutta franchezza non ci sembra opportuno, come è oggi di regola, sconfinare nel giudizio opposto e considerare tutta la produzione straussiana allo stesso livello. Non ci sembra certo azzardato vedere nell’Heldenleben un esempio dello Strauss peggiore, quello che si compiace di se stesso e utilizza la propria somma abilità di orchestratore e di contrappuntista al solo scopo di mostrare quale sia il livello di complessità armonica e timbrica al quale egli sa arrivare. La dissonanza viene utilizzata solamente allo scopo di “disturbare l’orecchio” e di dipingere i nemici, la critica ostile, il cui vociare stizzito echeggia, senza raggiungere lo stesso risultato, un altro luogo molto più riuscito del comporre straussiano, quello della diatriba tra Ebrei e Nazareni in Salome. E tutto ciò viene portato avanti per buona parte della lunga, troppo lunga partitura, salvo approdare come sempre al “sano” accordo perfetto di mi bemolle maggiore, e sottendere a quello la ritrovata felicità di una perfetta agenda di valori borghesi improntati all’amore e alla famiglia. E gli arabeschi del violino solista che – solo quelli – mandano in solluchero il pubblico (bravissimo come sempre Francesco de Angelis) rappresentano non solo la figura suadente della fidanzata/moglie di Strauss, Pauline, ma anche le sue presunte componenti di petulanza e irascibilità o la seccatura dei piccoli litigi (l’amore non è bello se non è litigarello, verrebbe da pensare, o “vita da cani”, come argutamente un critico della prima ora aveva ribattezzato il nuovo lavoro di Strauss) che sono ahimé ingredienti immancabili e stucchevoli nella Sinfonia Domestica e in Intermezzo. Come siamo lontani dal mi bemolle maggiore di Beethoven e dell’Eroica (che qui viene ostentatamente presa a modello di ethos)!
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