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Novecento • Al castello di Rivoli l’esecuzione integrale della monumentale opera (6 ore) del compositore americano nell’interpretazione del Quartetto d’archi di Torino
di Luciana Galliano
In una vasta sala sotto le capriate del Castello di Rivoli – Museo d’Arte Contemporanea, eravamo in parecchi a partecipare all’evento Music for a long time nello scorso dicembre. Occasione rarissima di ascoltare l’esecuzione, da parte del Quartetto d’Archi di Torino, del Secondo Quartetto di Morton Feldman, circa 6 ore di musica ininterrotta e di enorme difficoltà esecutiva. Il Secondo Quartetto fu scritto per il Kronos Quartet che lo eseguì 6 volte in versione abbreviata; nel 1996 l’Auryn Quartet eseguì ad Amburgo la prima delle sei esecuzioni integrali, e sei sono i quartetti che hanno affrontato questa composizione. Il Quartetto di Torino (unico in Italia ad averlo in repertorio) lo ha già eseguito a Bolzano nel 2009 e in Olanda nel 2010.
La bella sala, luminosa, era allestita con Dyke Line, una serie di lavori creati dall’artista Rolf Juliusnel 1979, nell’esplicito intento di realizzare un equivalente visivo al senso di “endlessness” della musica di Feldman. Il Secondo Quartetto fu peraltro scritto nel 1983. Nella seconda metà degli anni Settanta Feldman incontrava Samuel Beckett, altra figura inprescindibile – insieme a John Cage e Robert Rauschenberg, i tessitori di tappeti e Mark Rothko (ma anche Proust e Mondrian) – nel conio del personalissimo mondo creativo di Feldman. Un’espressione elettivamente musicale ma in sostanza anche “visuale” e “teatrale” – intellettuale nel migliore dei sensi, per un ascolto definito dallo stesso Feldman “an abstract experience” [se non diversamente indicato tutte le citazioni seguenti sono del compositore].
Non c’è alcun dubbio sulla cittadinanza astratta di Feldman, e sul piacere musicale di esperire l’astratto; tutta la difficoltà risiede nelle mani degli esecutori, a cui è richiesta una eccezionale resistenza, tenacia e concentrazione per consegnare agli ascoltatori un tessuto compatto e iridescente, una musica di incredibile fascino e addirittura, come diceva Cage, “talvolta troppo bella”. Rigore, ripetizioni cicliche irregolari, lentezza, criteri devianti… Ci si può chiedere come da tre o quattro note e un paio di intervalli (a tanto ammonta il materiale di base) Feldman riesca a tenerci ore in ascolto… infinita è la gamma di arcate e pizzicati, armonie e figure, armonici, ma tutto è giocato sull’impercettibile scarto, sulla sfumatura cangiante, sulla ripetizione e sul silenzio. È una questione di concentrazione, di “scrivere con l’inchiostro” cioé in sostanza, come il tessitore di tappeti, non poter tornare indietro a correggere – lo stesso faceva Cage con un afflato appena più vaticinante. “Uno stesso pensiero detto in maniera diversa”; il tempo scorre pianamente, in unità sonore aggregate in maniera irregolare, senza conflittualità residua fra un decorso musicalmente necessario e l’intenzione espressiva come di affresco, di campiture “visuali” da cui non emerga nulla di simile a un attacco o un accento. È una implacabile ossessione per l’ordine e il disegno – un procedere logico ed emotivamente neutro concepito grazie a tecniche visuali, che formula il tempo modulare del contemporaneo. “Direste forse che l’Odissea è troppo lunga?”
Senza alcun ricorso a pratiche aleatorie, abbandonate decenni prima, o a ideologie orientali, nemmeno filtrate dall’amicizia con Cage o Earle Brown, Feldman riesce a produrre in suono la bellezza dolcemente disumana e stranamente appassionata di un mondo che vive nell’immateriale, che sembra respirare nella natura ma è come irreparabilmente scalfito dalla presenza umana, un mondo contemporaneo segnato dalla fine di ogni dialettica. Il concerto è stato bellissimo, i musicisti eccellenti – e alla fine la loro stanchezza e minime imprecisioni hanno aggiunto pathos e intensità alla musica di Feldman, che forse proprio per la sua implacabile trasparenza è spaventosamente difficile. Gli organizzatori – l’Istituto Musicale di Rivoli, il compositore Giuseppe Gavazza, il Museo – suggerivano una modalità di ascolto intermittente muovendosi come flaneurs contemporanei tra musica e arte, di alternare la fruizione tra il concerto e le opere di Julius in sala, o addirittura, di cogliere l’occasione per una visita al Museo. Invece pochi ascoltatori si sono allontanati, qualcuno si è alzato, e la maggior parte è rimasta inchiodata alla sedia a inseguire frasi e armonie… un’esperienza meravigliosa, e mi è adesso più chiaro come sia che la musica del nostro tempo alimenti le anime verso una migliore convivenza col mondo. “Mondrian voleva salvare il mondo; basta guardare un Rothko per capire che lui voleva salvare solo se stesso”. Chi ha mancato l’occasione può averne un’idea da questo video, di Italo Gilardi.
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