Concerti • Il giovane pianista svizzero ha proposto per la Società del Quartetto un programma che comprendeva Mozart e Schubert, Ligeti e Debussy: profondo e sensibile nell’interpretazione, con il suo approccio allo strumento ha dato spunto ad alcune riflessioni
di Luca Chierici
[IL] trentenne pianista svizzero Francesco Piemontesi si è conquistato negli ultimi anni una buona posizione all’interno della categoria degli artisti meno inclini a inseguire un facile successo attraverso compromessi che poco hanno a che fare con una seria proposta culturale. Le qualità principali del suo talento, sostenuto da una preparazione di tutto rispetto, si esprimono attraverso un approccio analitico e preciso ai testi da lui affrontati, una sensibilità non comune, la curiosità di esplorare in lungo e in largo il repertorio (anche quello moderno dei Ligeti e dei Lachenmann). Lo abbiamo seguito con interesse attraverso le numerose emissioni radiofoniche che hanno documentato la sua attività in tutta Europa almeno a partire dal 2008, ma solamente l’altra sera abbiamo potuto apprezzare le sue doti nel corso di un recital tenuto per la Società del Quartetto di Milano, dove Piemontesi era stato già ospitato esattamente due anni fa. Un programma interessante suddiviso in due parti distinte evidenziava nella prima un accostamento tra Mozart e Schubert e nella seconda l’evidente parentela che intercorre tra le esplorazioni pianistiche condotte da Ligeti nei suoi Studi e l’universo sonoro debussiano espresso attraverso il secondo libro dei Préludes. Sensibilità e curiosità hanno permesso a Piemontesi di cogliere particolari inediti nella cosiddetta “Sonata Dürnitz” del salisburghese, una delle più sperimentali e difficili, se non delle più belle, di un genio diciannovenne. Si è trattato forse del momento più felice della serata che è proseguita con la proposta di una delle tre grandi sonate che Schubert ha dedicato alla tonalità di la minore. Qui però l’ascoltatore poteva iniziare a capire quale fosse il divario tra le intenzioni espressive del pianista e la effettiva realizzazione delle stesse sul piano puramente strumentale.
Piemontesi non ha dalla sua delle doti naturali di tocco e soprattutto di “peso” che lo aiutino a proiettare il suono in una sala da concerto in maniera adeguata a quelle che sono le sue aspettative di interprete. La differenza tra lui e tanti altri pianisti e pianiste dotati di un suono che senza mezzi termini definirei “magro” sta nel fatto che la sua gestualità suggerisce all’ascoltatore il risultato opposto: lo si è capito immediatamente, dal punto di vista visivo, dall’attacco della Sonata D 664, che nelle intenzioni di Piemontesi avrebbe dovuto produrre un suono pieno e vibrante utile per comunicare il senso di tragedia che si dipana attraverso tutto lo svolgimento di questo lavoro bellissimo. Il suono che usciva dal pur pregevole Steinway carrozzato Fabbrini era invece di tutt’altra e più limitata qualità, neppure migliorata da un uso alquanto parco del pedale di risonanza, suggerito forse da una eccessiva correttezza filologica. Si capisce allora come la caratteristica del suono di Piemontesi vada a inficiare anche il risultato puramente espressivo: si perdeva qui una parte del significato narrativo che pure nella Sonata è presente e allo stesso tempo non veniva sottolineata a sufficienza l’intensità delle parentesi cantabili.
La scelta successiva di due studi tra i 18 composti da Ligeti evidenziava come già detto una ricerca di sonorità che è palese in ambedue i numeri e che è stata illustrata in maniera convincente soprattutto nello Studio n. 2 “Cordes à vide”, affrontato a una velocità leggermente inferiore al previsto. Ancora molto apprezzabile era la precisione di Piemontesi nella esecuzione dei Preludi debussiani, precisione che andava però a scapito dell’ottenimento di un suono più fluido e continuo, anche a causa della scarsa pedalizzazione. L’ascolto del recital ci ha quindi lasciato con una serie di interrogativi che solamente successive prove del pianista potranno aiutare a risolvere. Si tratta di interrogativi che vanno a tirare in causa il ruolo odierno del concertista nel suo rapporto con il pubblico che lo ascolta in sala o diciamo così per “via remota”. È dato di fatto inconfutabile che esista in molti casi una differenza notevole tra l’intensità e la qualità del suono percepito attraverso una emissione radiotrasmessa o registrata e quella proveniente dall’effettivo ascolto dal vivo. Vi sono strumentisti per i quali questa differenza semplicemente non esiste, altri che guadagnano o perdono nel confronto. Può sembrare un discorso ozioso, ma si tratta di parametri che concorrono a interessare il giudizio complessivo su un artista anche sotto il profilo interpretativo. Il fascino timbrico e la granitura del suono permettono di solito a un pianista di catturare l’attenzione del pubblico in sala a prescindere dalle scelte di repertorio e dalla profondità dell’interpretazione. Un pianista come Piemontesi, che può contare in maniera limitata su queste prerogative e che “suona” molto meglio attraverso i media, parte in maniera svantaggiata e dovrà a nostro parere contare sempre di più sulle sue capacità di analisi del repertorio e su un lavoro che lo porti ad approfondire tematiche specifiche.
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