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Opera • Il capolavoro di Verdi alla Staatsoper. Lo spettacolo di Peter Stein sopravvive a sé stesso, ma incontra una compagnia di canto dominata dal carisma di Plácido Domingo e dalla finezza di Michele Pertusi
di Francesco Lora
N el 2000, al Festival di Pasqua di Salisburgo, Claudio Abbado tornava al Simon Boccanegra di Verdi. Per l’occasione fu varato un nuovo allestimento scenico, con regia di Peter Stein, scene di Stefan Mayer e costumi di Moidele Bickel; e se quell’allestimento fosse subito passato all’oblio, nessuno ne avrebbe lamentato la perdita: personaggi avvolti negli immancabili cappotti, vetusti fondali dipinti assortiti con pavimenti di vetro retroilluminato, nessuna idea teatrale in grado di fermarsi nel ricordo. L’eccezione conferma la regola: quando, nell’atto III, il Capitano dei Balestrieri avanza tra il bagliore delle torce su un palcoscenico finalmente vuoto, lo spettatore torna libero di immaginare e riassaporare, in quel nulla, le suggestioni marine sparse nella musica. Non l’oblio, però, ma una lunga vita è toccata a questo insipido allestimento: ripreso nel 2002 al Maggio Musicale Fiorentino, esso è poi passato alla Staatsoper di Vienna, dove lo si vede invecchiare anno dopo anno.
Se non altro, a Vienna questo invecchiamento resta in secondo piano, dietro il primato che la capitale austriaca dà sempre al discorso musicale: e diverse cose bisogna infatti riferire – tra conferme, curiosità e debutti – a proposito delle quattro ultime recite viennesi del Simon Boccanegra (17-28 febbraio). La conferma è la solita: la Staatsoper di Vienna gode di un’orchestra sprezzante e orgogliosa, decisa a dimostrare di poter fare da sola in faccia al direttore; ma questa orchestra conosce davvero il repertorio in lungo e in largo, e a ogni ripresa di un titolo d’opera sembra averne spontaneamente approfondito la lettura, respirando con i nuovi interpreti, quali che siano, e non disdegnando le dritte di un concertatore capace. A Evelino Pidò l’orchestra ha benignamente concesso una prova prima di andare in scena, e le meraviglie dell’intesa tra podio e strumenti non tardano a manifestarsi: eccole nel virtuosistico giocare di articolazioni e colori, quando Verdi ritrae in musica il frangersi dell’onda sulla riva, i richiami dell’alba, la brezza che fa fremere il mare nell’ultima notte del doge di Genova; ed eccole anche, meno esibite ma altrettanto preziose, quando ciascun cantante trova un suono orchestrale estemporaneamente commisurato al proprio peso vocale, e una sbalorditiva condivisione sinfonica delle proprie intenzioni di fraseggio.
I pregi dell’orchestra risultano ancor più evidenti di fronte a una compagnia di canto tanto interessante quanto eterogenea. Il discorso più frastagliato è quello intorno a Plácido Domingo, qui interprete della parte protagonistica: compiuti i suoi primi settant’anni, il celebre tenore è ormai passato al registro di baritono, privilegiando la galleria dei grandi personaggi verdiani – non solo Simon Boccanegra, ma anche Rigoletto, Nabucco, Francesco Foscari – e dimostrando una volta di più il suo incontenibile entusiasmo interpretativo. Lo si deve lodare: quell’entusiasmo contagia il pubblico, che alla fine di ogni recita lo festeggia ancora per cinque, dieci, venti minuti filati, anche quando il sipario tagliafuoco è già calato. Cionondimeno, sarebbe eccessivo individuare in Domingo un Simone di riferimento. Il primo scherzo glielo fa la memoria. Il vecchio leone incespica cioè su molti versi del libretto, compresi quelli indimenticabili dell’invocazione ai genovesi, «Plebe! Patrizi! Popolo / dalla feroce storia»: se le parole in quanto tali vengono a mancare, si insinua il sospetto di una non chiara comprensione della situazione teatrale, e dunque dell’affetto espresso nei versi poetici; e infatti l’attore si arrocca perlopiù su un accento e una gestualità veementi, esagitati, coinvolgenti sì, ma in fondo buoni a ogni uso, e indici di uno scarso approfondimento psicologico. Un secondo scherzo, a Domingo, lo fa il riaffiorare dell’impostazione vocale tenorile. Il problema, si badi, non è in primis estensivo e timbrico: tutte le note suonano sicure, sonore e timbrate, chiare non più di quanto Verdi fosse solito ascoltare dai baritoni della sua epoca (ovvero: oggi i melomani pretendono spesso una scurezza timbrica che, dal punto di vista storico, non è un articolo di fede bensì un’eredità verista). Il fatto è, piuttosto, che nella linea di canto di Domingo le note rimangono pensate soprattutto nella loro individuale verticalità: orbitando la tessitura una terza più in basso, questo stile tipicamente tenorile – cioè la ricerca dello squillo nota per nota – risulta poco naturale; latita ancora, in altre parole, la fragrante distesa orizzontale del legato nella sua declinazione baritonale, quella che si può ascoltare anche in Mario Caria, il lussuoso Paolo Albiani di queste stesse recite. Ma Domingo si sta armando per una seconda carriera: altri settanta di questi anni, e saremo baritonalmente accontentati.
Ammirevole è poi la prova del tenore Roberto De Biasio, debuttante alla Staatsoper, nella parte di Gabriele Adorno: se nel recente Macbeth bolognese non era stato adeguatamente valorizzato, egli esibisce qui una musicalità di prim’ordine, dove il canto verdiano sa fare a meno di qualche tradizionale esuberanza per ritrovare invece un fraseggio levigato, una dizione limpida, un’espressione stilizzata eppure commovente. Non altrettanto si può dire del soprano Maija Kovalevska, a dispetto della massiccia campagna pubblicitaria che ha preceduto la sua apparizione viennese: si ammette la bellezza della donna e si vuol credere alla miglior forma vocale sfoggiata durante le prove, ma alle quattro recite come Amelia Grimaldi ella cade in ostaggio delle note acute, gridate e calanti, né resta molto altro con cui argomentare in suo favore. Mentre stupendo è, per finire, il debutto di Michele Pertusi nella parte di Jacopo Fiesco: quando apre bocca, egli non è un insieme di violoncelli e contrabbassi come Cesare Siepi, né un organo a pieni registri come Nicolai Ghiaurov, e non è nemmeno un basso puro che, come Roberto Scandiuzzi, farà di Fiesco il suo personaggio feticcio; è però il baritono-basso più curioso e onnivoro che il canto italiano oggi abbia, quello che più si sia dato pena di indagare l’evoluzione della vocalità da Mozart a Verdi, quello – infine – meglio capace di arrivare al nuovo debutto unendo l’umiltà dell’approccio alla genialità dello studio. L’ampia campata del suo cantabile tutto poggiato sul fiato, il timbro nobilissimo che rifiuta ogni cavernosità, la parola illuminata dal cesello dell’accento riconfermano in lui un interprete per intenditori: e quando Fiesco svela ad Adorno la vera origine di Amelia, e quando Pertusi srotola quella narrazione con tono altero, antico, pacato, persino lì, in un recitativo, ci se ne accorge. Eccome.
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