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Concerti • Magnifico recital dell’interprete russo al Festival di Brescia e Bergamo nel nome di Schubert e Beethoven; dedicata a Rameau e a Brahms la consueta raffica di bis
di Emilia Campagna
I veri estimatori lo sanno, e stanno ben incollati alla sedia anche se la mezzanotte è vicina, e parte del pubblico già si è alzato. Incollati alla sedia e a battere le mani dopo il terzo, il quarto, il quinto bis: perché la selva di “encores” di Grigorij Sokolov non è mai un’eccezione, e regala all’ascoltatore insaziabile una (quasi) terza parte di concerto. Al Teatro Donizetti di Bergamo, dove Sokolov è stato ospite acclamatissimo del Festival Pianistico di Brescia e Bergamo, i bis sono stati sei, quasi tutti nel segno dell’amato Rameau e chiusi da un Brahms (l’Intermezzo op. 117 n. 2) che inaspettatamente virava le tinte della serata verso l’affetto e l’umana simpatia. Perché nella prima parte c’era stato uno Schubert insospettabilmente drammatico: un impaginato di pezzi brevi, seppur non brevissimi (gli Improvvisi op. 90 e i Tre Klavierstücke D 946) che nell’esecuzione di Sokolov si dilatavano sullo spazio di un’ora, complice uno stacco di tempo generalmente più lento di quanto si è abituati a sentire, ma soprattutto un carico di tensione emotiva costantemente nutrito e mantenuto alto dal pianista.
Uno Schubert drammatico, si diceva, indagato nei minimi dettagli dal pianismo sapiente del russo: i noti pianissimi perlacei, il forte spinto senza timore di possibili durezze, in mezzo la capacità di sviluppare piani di colore molteplici, che illuminano l’architettura musicale e la consegnano, sfaccettata, all’ascolto. Tecnica pianistica al servizio di un’idea interpretativa decisamente personale: non lo Schubert dall’umore cangiante, che ci offre tinte nostalgiche in cui specchiare il nostro dolore per stemperarlo nella danza apparentemente spensierata, ma uno Schubert più corporeo, per qualcuno romantico, con slanci alla Schumann, in intenso lavorio. A noi è parso uno Schubert sul lettino dello psicoanalista, alle prese con dolori non risolti e, forse, non risolvibili: l’ora piena era dunque un tempo percettivamente dilatato, che si apriva con i contrasti del primo Improvviso dell’op. 90: quasi un lavoro di bulino nella definizione dei dettagli, e un crescendo di tensione che dava alla partitura una dimensione narrativa e psicologica affascinante. Il secondo era invece staccato con andamento moderato e sonorità clavicembalistiche: niente morbidezze da volatine, dunque, nessun rassicurante omaggio al virtuosismo salottiero di marca Biedermeier, ma un coerente sottolineare i tratti potenzialmente drammatici della partitura. Parentesi quasi lirica con il terzo Improvviso, mentre nel quarto, dietro l’apparente leggerezza delle veloci quartine, si tornava allo scavo, alla ricerca delle zone d’ombra. Più lirismo, più cantabilità in molti momenti dei tre Klavierstücke, comunque segnati dall’avvio impetuoso del primo.
La seconda parte era un ideale contraltare della prima: apoteosi della forma classica, con l’Hammerklavier di Beethoven. Pianismo sinfonico, e anche qua minuziosissimo nei dettagli ma con un che di oggettivo che allontanava le punte di drammaticità della prima parte: appagava l’ascolto la visione ampia, la restituzione dell’architettura colta con profondità di campo inarrivabile. Contrasti accesi nel primo movimento, ancor più nel secondo, lo Scherzo che apre quasi giocoso per poi annichilire con tempeste di accordi dal sapore schizofrenico, in cui Sokolov non lesina percussività. Cuore espressivo il lunghissimo Adagio, con il suo sincopato accorato di strepitosa modernità: il segreto nell’incontro di distacco e partecipazione stava nel suono cantabilissimo entro una lettura più che rispettosa del segno beethoveniano. Le irrisolte domande del tempo lento trovavano compiuta risposta nei fugati perfetti del Finale. Sonorità bachiane, ma tensione beethoveniana: di più non si può desiderare.
Alla fine, i sei bis: Rameau che con i suoi trilli era una cascata di freschezza e il congedo brahmsiano. E la luce piena accesa sul palcoscenico, infine, mandava a casa (a malincuore) anche i più tenaci nell’applaudire.
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