Opera • In scena nel teatro milanese il titolo verdiano: la regia di Michieletto non piace ad una parte del pubblico che protesta
di Luca Chierici
È possibile misurare il contributo che una regia di buon livello può oggi portare alla rappresentazione di un capolavoro del teatro d’opera come Un ballo in maschera anche nei termini di una rilettura che sviluppi degli spunti nuovi e inediti. Spunti che possono portare anche assai lontano, non tanto dall’originale, inteso come libretto o indicazioni di rappresentazione volute dallo stesso musicista, quanto da ciò che la tradizione ha nel tempo imposto come ingredienti indiscutibili, come limiti invalicabili. Il regista può dunque (diremmo quasi deve) pensare a una sorta di percorso psicanalitico fatto di collegamenti, di associazioni atte a sottolineare in maniera diversa, ma anche con maggiore intensità, momenti del melodramma che altrimenti sarebbero destinati a essere ripetuti in eterno secondo schemi convenzionali.
Non era un mistero il fatto che il quasi quarantenne Damiano Michieletto, regista veneziano oggi tra i più discussi e originali, avesse già dichiarato attraverso interviste pubbliche quale fosse la sua chiave di lettura dell’opera verdiana: il momento di crisi di un uomo politico americano, leader vincente alla vigilia di importanti elezioni e allo stesso tempo innamorato della moglie del proprio amico e sodale più caro, un uomo dal passato non proprio immacolato tanto che sono in molti a desiderarne la morte. E la scoperta del suo tradimento non è alla fine che un pretesto per l’assassinio di rito, gesto che tra l’altro si ripete molte volte nella travagliata storia politica americana, come ci rammenta anche il recente Lincoln di Spielberg. Una rivisitazione del soggetto che ci ricorda come il tema del divario tra sfera pubblica e privata di un uomo politico è tema di scottante attualità, in Italia come all’estero.
La trama originale dell’opera verdiana, destinata a ricordare l’assassinio di Gustavo III di Svezia era del resto già stata spostata nella Boston del ’600 su richiesta della censura, certa che l’allontanamento in terre allora molto remote avrebbe attenuato la portata delle parti “scabrose” della vicenda, realmente avvenuta. Assodata la validità della trasposizione di Michieletto, era logico aspettarsi una interpretazione conseguente dei caratteri dei personaggi e la realizzazione di tutti o quasi i particolari del libretto in modo tale da evitare contraddizioni vistose. Ecco allora che con lodevole immaginazione il regista ci presenta un Renato come body-guard responsabile della sicurezza, un’Oscar che da paggio diventa femminile capo dell’Ufficio stampa di Riccardo. E ancora Ulrica viene assimilata a una santona che attira a sé folle di devoti, come spesso avviene per molti movimenti pseudo-religiosi in terra americana. Amelia a lei si rivolge, giungendo affannata e ingurgitando pastiglie di ansiolitici. Le scene di Paolo Fantin assecondano in pieno l’idea registica, a partire dalla sala riunioni del partito che sostituisce quella del Governatore, dove campeggia ovunque la scritta elettorale “Riccardo incorrotta gloria”. L’antro di Ulrica diventa una struttura nella quale si accomodano gli adepti del movimento, con l’andirivieni di persone sofferenti che ricevono la liberazione dai propri mali attraverso il contatto fisico con la santona. Il campo solitario nei dintorni di Boston dove Ulrica invia Amelia per raccogliere l’erba magica che la guarirà dalle pene d’amore per Riccardo si trasforma in uno squallido luogo di periferia dove battono le prostitute e dove Amelia viene rapinata della pelliccia e costretta a indossare un impermeabile bianco della passeggiatrice che l’ha aggredita. Riccardo arriva con un macchinone sportivo nero (forse l’unico particolare che regista e scenografo avrebbero potuto evitare) e dopo l’incontro con Amelia si consuma la tragedia del riconoscimento della stessa da parte di Renato. Svelato il tradimento, i congiurati mimano amplessi tra di loro mentre Samuel, Tom e il coro irridono al “caso strano”.
La vasta e ricca sala da ballo è il luogo dove avviene il party elettorale di Riccardo, al quale il coro si presenta con le sagome di cartone del loro leader. È luogo ideale per un assassinio in piena regola e alla fine una controfigura del protagonista ammazzato prende il posto del Riccardo morente, risolvendo in maniera efficace un problema registico non facile. Il defunto è in piedi davanti a noi e canta il suo perdono nei confronti dei presenti e il suo addio alla vita.
La produzione scaligera allestita in collaborazione con il teatro Comunale di Bologna attirava dunque l’attenzione soprattutto per l’attesa lettura di Michieletto, anche se la reazione negativa di gran parte del pubblico ha guastato una serata per altri versi memorabile.
Alla prima riapertura del sipario sono iniziate le proteste più tradizionali, da un “Brava la claque !” a un “Vergogna idioti!” durante la scena del campo solitario; poi la pioggia di volantini (pre-stampati) che riportavano frasi del tipo SMETTETE QUESTE PAGLIACCIATE, È ORA DI FINIRLA !!! PIU’ RISPETTO PER GIUSEPPE VERDI ! NON SE NE PUO’ PIU’ fino a culminare nel più che scontato e rumorosissimo dissenso al momento delle chiamate finali.
Una vergogna, certo, una vergogna che una buona parte del pubblico di uno dei più importanti teatri del mondo si sia lasciato andare a contestazioni di così basso livello nei confronti di uno spettacolo discutibile quanto si vuole ma di indubbia intelligenza e pregio artistico. Un pubblico dissenziente che in gran parte non capiva nemmeno il perché del proprio dissenso, Signore & Signori che vanno a “vedere l’opera”, ma vogliono vedere quello che a loro piace, magari una Ulrica con i capelli arruffati e tinta di marrone con il Brill, o travestita da indiana (Simionato, 1960) o un Riccardo in abiti da moschettiere come li si possono ammirare in certe foto d’epoca. Una spettatrice ha pure da ridire sull’accostamento tra la pelliccia e la borsetta indossata da Amelia (che particolare fondamentale!), un’altra continua a ripetere “ma che schifo!” oramai caduta in una trance dalla quale non potrebbe essere risvegliata neanche dalle erbe della maga/santone.
In tutto questo bailamme (alla fine pare si sia giunti alle offese verbali e pure alle mani tra le opposte fazioni dei pro e contro) non venivano pure risparmiati i fischi ai cantanti (che nello svolgimento dell’opera non erano a dire il vero stati censurati con la stessa foga, anzi) e al direttore, colpevole di avere seguito troppo alla lettera la visione anticonvenzionale del regista.
Le attuali disponibilità di mercato non consentono oggi l’ascolto di cantanti paragonabili per tipo di emissione e di raffinatezze interpretative ai grandi esempi del passato. Con ciò, o si chiude del tutto, o ci si rassegna a partecipare a una recita d’opera cercando di trovare risposte su un più complesso insieme di componenti, direzione regia e scene innanzitutto.
Con i tempi che corrono, Marcelo Álvarez ha saputo imporsi con accento fresco, bel piglio tenorile: eccelle quasi ovunque, forse un poco meno nel sottolineare il carattere insicuro del protagonista, in parziale disaccordo con la visione del regista. Sondra Radvanovsky, Amelia pur sempre appassionata, pecca di disomogeneità, appare più sicura nel registro medio grave che in quello acuto, ma merita sentiti applausi nel duetto d’amore dell’atto secondo e negli altri momenti chiave del suo ruolo. Renato è personaggio che richiederebbe un insight ben maggiore di quello dimostrato da Zeljko Lucic, baritono in ordine ma davvero “basic” e senza alcun tipo di raffinatezze. Marianne Cornetti è una Ulrica fin troppo presente e anch’essa non certo memorabile per qualità di voce e omogeneità di emissione, ma ben calata nel “nuovo” personaggio. Oscar contestatissimo, cui forse si rimprovera di non rispettare la tradizione più fiacca che vuole un personaggio scenicamente e vocalmente di risibile petulanza, con un timbro squillante ma sottile, pungente, stridulo è stata la brava Patrizia Ciofi. Daniele Rustioni ha dato inizio al Preludio in maniera non certo memorabile ma a modo suo ha affrontato i momenti culminanti del capolavoro verdiano con una buona conoscenza della tradizione e allo stesso tempo con un’ottima sintonia d’intenti con la regia di Michieletto. Il quale ultimo aveva profeticamente dichiarato: «Quando anni fa ho fatto spettacoli per bambini … avevo il miglior pubblico del mondo: quello che non viene per vedere confermata una propria idea o aspettativa, ma quello che viene per vivere un’emozione, immergersi in un racconto, lasciarsi trasportare dall’immaginazione». Alexander Pereira, nuovo Sovrintendente della Scala, è stato il primo a credere nel suo talento e gli ha commissionato la regia del Falstaff con Zubin Mehta che si ascolterà a Salisburgo a fine mese. I contestatori di ieri sera si mettano già l’animo in pace, perché il nome di Michieletto difficilmente scomparirà dalle future locandine del Teatro.
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Gentili Signori,
mi chiamo Federica e ho 20 anni. Ho cominciato ad ascoltare le opere qualche anno fa e me ne sono subito appassionata. Non avevo mai visto Un Ballo in Maschera di Verdi, l’avevo solo ascoltato con una registrazione storica degli anni ’50 e ne ero rimasta affascinata. Non sono contro le attualizzazioni (Falstaff per esempio mi era piaciuto moltissimo), ma le attualizzazioni di cattivo gusto non le posso reggere. Subito all’inizio del primo atto ho dovuto chiudere gli occhi per non guardare e per non rovinare quella magia che avevo solo immaginato fino a quel momento e che speravo di trovare. I loggionisti, è vero, erano arrabbiati, sicuramente anche troppo (nemmeno a me sono piaciuti tutti i buh indiscriminati alla fine dell’opera), ma è anche vero che certe cose in scena uno spera di non vederle. A cosa mi riferisco? È necessaria una lotta fra battone? È necessario che due idioti del coro mimino un atto sessuale sul cofano di una macchina? Non sono contro le attualizzazioni Signori, ma il cattivo gusto è pur sempre cattivo gusto! I cantanti non sono più quelli di una volta? E perché allora dobbiamo umiliarli ancora di più?! Il tenore era alla fine della carriera (mi è stato detto da uno di fianco a me che sicuramente ne sapeva più di me) e sembrava di sentire Bocelli, il quale, con tutto il rispetto che ho per lui, manca delle note più alte. La soprano era bravissima, ma potevo sentire anch’io che la voce non era giusta: ne serviva una più piccola, una più da Amelia, non da Tosca! Lei sicuramente però non l’avrei fischiata, infatti le ho applaudito. Il baritono era bravissimo e così anche la mezzosoprano. C’è stato da ridire su Oscar: credo che non piacesse la sua voce, io però ho trovato solo il fraseggio poco chiaro, per il resto nulla da ridire.
Per quanto riguarda quanto è accaduto in seconda galleria, io posso testimoniare che nessuno è arrivato alle mani con nessun altro. C’è stato tanto da litigare sulla prima scena del secondo atto: Signori era proprio brutta! Avevo un nodo alla gola anch’io, quasi mi veniva da piangere al vedere quella bruttezza! Il grido a scena aperta di un signore a due metri da me è stato liberatorio: “Che schifo!” Credo che lo ricorderò per sempre.
Che attualizzino tutto quello che vogliono! Rimane che la Bohème di Zeffirelli era proprio bella!
Il pregiudizio uccide ancora prima di iniziare: purtroppo la sera della prima del Ballo in maschera non ho potuto ascoltare e vedere con serenità un’opera di intensa drammaturgia per la volontà di chi ispirato da un desiderio nevrotico, altro non vuole che la ripetizione ossessiva, museale delle opere. Siamo sicuri che il baluardo della tradizione melodica, di cui il Loggione si fa vanto e fregio altro non sia che un bieco mezzo di conservatorismo che relega l’opera in un luogo polveroso e pieno di acari?
Perché i commenti debbono grondare aggressività? Signor Carrara, non credo che il teatro d’opera sia distrutto dai nuovi allestimenti. Personalmente, spendere duecento euro per la riproposizione dei benemeriti allestimenti di Zeffirelli mi parrebbe un cattivo investimento (l’Aida ‘orignale’ dell’anno scorso era insopportabilmente fané).
Ho la netta sensazione che chi ha fischiato Michieletto avrebbe fischiato a suo tempo anche Verdi (come lei sa, è accaduto).
Apriamo i teatri e facciamoli funzionare bene. E rispettiamo il lavoro degli artisti, anche quando non ci piace.
perché non attualizzare tutta L’arte altrimenti che noia…….. Quanto provincialismo nei musei,nelle pinacoteche,nelle chiese,ecc.dentro la scala stessa………
La realtà e’ che con tutte queste cazzate si sta definitivamente distruggendo il teatro d’opera
Aggiungiamo poi che queste porcherie vengono prodotte e pagate anche con soldi pubblici. La scala potrebbe vivere di rendita con i capolavori che ha ammassati nei suoi magazzini molti dei quali distrutti come l’otello di zeffirelli del 76
Chiudiamo i teatri d’ opera che è’ meglio