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Concerti • Inaugurate le Settimane Musicali sul lago Maggiore con pagine di Debussy, Britten, Smetana e “Water”, nuova composizione del pianista turco
di Attilio Piovano
Si è inaugurato con un programma davvero intrigante ed efficace la cinquantaduesima edizione delle Settimane Musicali di Stresa, come sempre per la direzione artistica accorta e puntuale di Gianandrea Noseda. Un programma per intero incentrato sui sortilegi dell’acqua, fascinoso e inafferrabile elemento che, fotografato nelle sue varie declinazioni, nell’universo musicale, come pure in pittura ed in letteratura, ha sedotto non pochi artisti. Ecco allora in apertura una pagina assai popolare a dare l’avvio e si è trattato della «Moldava» di Smetana: protagonista la Gastaad Festival Orchestra, una compagine di buon livello, ben amalgamata e dal suono talora fin troppo corposo. Sul podio il navigato ed esperto Neeme Järvi che della gradevole e fortunata pagina del musicista slavo ha giustamente posto in evidenza il tema caloroso e fluente che ne costituisce il motivo di maggior appeal: un tema dalla suadente curva melodica che – detto per inciso – ricorda curiosamente la napoletanissima «Fenesta ca luvice», un tema impregnato di aromi popolari sul quale Järvi s’è soffermato con compiaciuta insistenza, centellinandolo con cura, sapendo di poter contare sulla buona pasta degli archi di Gastaad. Dalla sua lettura, specie nella parte centrale più screziata di ritmi, con quegli accenni di danza e quel mix di echi passati, memori di elfi mendelssohniani e freschezze primaverili di certo Grieg, la «Moldava» è apparsa come rigenerata, avvolta da un’aura di spigliata soavità, quasi una «Moldava» in 3d, sbalzata ad ampie pennellate: sicché il folto pubblico che la sera di sabato 24 agosto affollava il Palazzo dei Congressi ne è risultato subito conquistato.
Un Debussy dagli sgargianti colori acrilici, come certo Andy Warhol, ma si sa che Debussy è più prossimo a un Turner, un Monet, un Sisley
Piatto forte della serata l’attesa presenza del versatile pianista e compositore turco Fazil Say e, più ancora, forte attesa per il suo nuovo lavoro, «Water» op. 45 per pianoforte e orchestra presentato pochi giorni or sono (il 18 agosto) in prima assoluta al Gastaad Festival ed approdato a Stresa ancora fresco di inchiostro. Un lavoro accattivante, ricco di seduzioni armonico timbriche; un lavoro ben scritto nei suoi tre movimenti (lontani peraltro dalla classica dialettica del Concerto per solista e orchestra) intitolati rispettivamente Acqua azzurra, Acqua nera e Acqua verde, nel quale Say ha saputo abilmente mescolare echi occidentali (molto Debussy, ma anche certo Liszt, fin dall’apertura iridescente come una bolla di sapone) con suggestioni etniche, una strizzatina d’occhi alla minimal music per certi insistiti e un poco ipnotici patterns, vistosi e pur dissimulati echi jazzistici ed altro ancora; un forte senso della forma ed una capacità costruttiva ragguardevoli, ma su tutto predomina una sensibilità timbrica davvero notevole che si spinge perfino a miscelare percussioni e sonorità con echi di gabbiani, fruscii di vento e piovaschi amazzonici. Se il primo pannello indugia soprattutto su atmosfere oniriche, ma contiene pure una robusta sezione ritmicamente aitante, nel secondo a prevalere è un senso di cupa tensione, col pianoforte trasformato in una sorta di minaccioso strumento ad arco, con quelle note nel grave ‘stoppate’ dalla mano sinistra posta sugli smorzatori e un suono inedito; da ultimo ecco la seduzione della pioggia e l’apparire in organico il rainstick, il bastone della pioggia, con i suoi ipnotici scrosci, ora delicati e rarefatti, ora più tempestosi, giù giù sino all’epilogo, giocato in un clima di tenue ed impercettibile delicatezza. Niente sperimentalismi da avanguardia, ma va bene così, ci mancherebbe: il pubblico mostra di gradire alquanto e Fazil Say – si sa – annovera fans da stadio (laddove i critici come sempre, con snobistico e saccente distacco, eccettuano, obiettano, insinuano, storcono il naso e via dicendo). Una musica quella del poliedrico artista – un vero artista, colto e sensibile – che forse non passerà alla storia, ma pur tuttavia riesce a sedurre ed incidere sulle emozioni. E questo è già un gran pregio, specie se confrontata a certa avanguardia sterile che si ascolta più col cervello che non col cuore. Due bis da standing ovation, per intero sul versante jazzistico nel quale Fazil Say si rivela ancor più personale ed incisivo. E invero dinanzi alle sue raffinate rielaborazioni di «Summertime» e così pure di un celeberrimo «Capriccio» paganiniano (quello in la minore che sedusse Liszt come Brahms, Rachmaninov e molti altri) è davvero difficile restare insensibili, rapiti dalla sua inesauribile vena armonica e dalla sua tecnica prodigiosa.
Meno convincente – sul piano interpretativo – la seconda parte della serata, ed è un vero peccato perché il programma proseguiva con lucida coerenza. Dei sublimi e fascinosi Quattro Interludi marini dal «Peter Grimes» di Britten (celebrato nel 100° della nascita) Järvi ha dato una lettura fin troppo analitica, talora esagerando, quanto meno a nostro avviso, nelle sonorità. Per dire, è pur vero che quella campana insistente in «Sundey Morning» evoca la tragedia immanente poi destinata a conflagrare in tutta la sua ineluttabilità nel concitato «Storm» – terrificante tempesta atmosferica e mimesi dell’anima spazzata da furibonde raffiche – ma forse a renderla un poco più evocativa e meno lancinante la pagina se ne sarebbe giovata, con l’incresparsi delle onde e i festosi barbagli. Così pure, personalmente, avrei preferito colori più evocativi e qualche alonata indeterminatezza nel suggestivo «Moonlight», idem per l’iniziale «Dawn», un’Alba che si sarebbe preferita più trasparente.
Coerentemente, Järvi ha interpretato così anche la debussiana «Mer», una pagina che s’inaugura nel fruscio arcano del vento con un più che pianissimo, e invece era già mezzo forte alla quarta battuta, sicché quel senso del risveglio della natura all’alba e l’evocazione del luccichio azzurro del mare di prima mattina, e il ridestarsi degli uccelli in concomitanza con lo schiarirsi della tavolozza timbrica, hanno finito per risultare vanificati. Una lettura – verrebbe da dire con una formula facile se i lettori permettono – poco impressionista e vieppiù…espressionista, quella fornita da Järvi: un Debussy dagli sgargianti colori acrilici, come certo Andy Warhol, ma si sa che Debussy è più prossimo a un Turner, un Monet, un Sisley. Lettura peraltro in parte legittima, certo, quella di Järvi, che ha avuto il pregio di porre in luce le valide prime parti della compagine di Gastaad (appena qualche lieve sbandamento ritmico qua e là, piccole cose per la verità), lettura curiosa e un poco controcorrente con sonorità in qualche caso troppo fragorose e altisonanti (quanto meno dalla mia postazione nelle primissime file a ridosso del palco), e si sa che Debussy è in primis sfumature e delicatezze, colori soffusi e gradazioni tenui, passi cangianti ed ibridazioni soavi, a rendere il mistero e la seduzione eterna dell’acqua. Molti i consensi e protratti gli applausi, ricambiati, da parte dell’estone e settantacinquenne iperattivo Järvi, con un caloroso bis in omaggio a Sibelius: e s’è trattato dell’arcaicizzante e luminoso «Andante Festivo» per soli archi (e un tocco di timpani in chiusura) dalle incisive frasi melodiche.
Superati i pini marittimi odorosi di resina e di umidità notturna, raggiungendo il lago punteggiato di luci – non si poteva non contemplare l’acqua, quella vera, nottura dopo un tale programma prima di salire in auto – avevamo ancora nelle orecchie le dolci linee melodiche di Sibelius: evocatrici di fiordi, notti bianche e luminosità boreali. La musica è innanzitutto questo, capacità di innescare emozioni, capacità di evocare l’intera gamma delle impressioni sensoriali, sapori, profumi, aromi, visioni chimeriche in sinestesica armonia. E la serata inaugurale di questo ricco Stresa Festival, occorre ammetterlo, procedendo dall’acqua, c’è riuscita senz’altro.
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