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Recensione • Maisky, Trifonov, Wang, Kavakos e molti altri protagonisti in scena nel festival svizzero giunto al ventesimo anno di programmazione
di Luca Chierici
Nel suo ventesimo anno di programmazione il Festival di Verbier ha giustamente insistito su un percorso che ne ha determinato il carattere sin dalle prime edizioni. Era possibile infatti ascoltare anche questa volta tra luglio e i primi di agosto una successione di concerti da camera di notevole livello, che hanno sempre il pregio di riunire tra loro artisti famosi nel piacere di far musica d’assieme. Quello che si perde con l’assenza di ensemble stabili e ben collaudati lo si recupera attraverso emozioni diverse: ascoltare il solista famoso impegnato in parti per lui insolite, cogliere l’attimo dell’entusiasmo comune nel leggere con impeto inusuale dei testi che in altra sede siamo abituati a considerare secondo prospettive più meditate e “classiche”. È in sostanza l’approccio che discende dalle famose settimane musicali di Prades che vedevano solisti d’eccezione collaborare nel grande repertorio cameristico attorno alla figura mitica di Casals e che ci hanno permesso, attraverso registrazioni preziosissime, di cogliere illuminazioni straordinarie quanto imprevedibili: un esempio per tutti, la Sonata in la maggiore per violoncello e pianoforte di Beethoven davvero “recitata” dallo stesso Casals accompagnato dall’amico di sempre Alfred Cortot.
Lo scorso 31 Luglio si assisteva nella Salle des Combins all’esecuzione di due capolavori amatissimi, il Quintetto di Dvořák op.81 e il Trio op.50 di Čajkovskij. Protagonisti del primo erano i violinisti Renaud Capuçon e Vilde Frang, Yuri Bashmet alla viola, Gautier Capuçon al cello e il giovane Daniil Trifonov al pianoforte. Una lettura espressiva e tecnicamente impeccabile che però non si è spinta al di là di una buona resa del testo originale, soprattutto da parte di un pianista ancora in fase di crescita, e non ci ha fatto certo dimenticare l’evento cui assistemmo negli anni ’80 alla Scala, quando il Quintetto, allora pochissimo eseguito, venne rivelato al pubblico dal quartetto Borodin e da Sviatoslav Richter, entrambi in stato di grazia.

Molto più convincente e di livello musicale complessivamente più alta è stata invece la proposta del Trio di Čajkovskij da parte di Mischa Maisky al cello, Maxim Vengerov al violino e Itamar Golan al pianoforte. Quest’ultimo sostituiva Evgenij Kissin, ma il pubblico si è tutt’altro che pentito di avere perso l’occasione di ascoltare uno dei beniamini del festival. Apprezziamo da anni l’israeliano Itamar Golan, accompagnatore eccezionale di tanti strumentisti famosi, dotato di una intelligenza musicale straordinaria accompagnata da una tecnica d’eccezione. Con lui e i valorosissimi compagni si è rinnovato il rito di ascolto di quella straordinaria elegia funebre che Čajkovskij scrisse in memoria di Nikolai Rubinstein. L’idea di lavorare a questo Trio derivò da un accadimento luttuoso che aveva scosso profondamente l’ipersensibile musicista: mentre si trovava a Nizza, nel 1881, Čajkovskij venne infatti raggiunto dalla notizia della morte del fratello di Anton Rubinstein, avvenuta a Parigi il 23 marzo. Il musicista parte da Nizza immediatamente, si reca a Parigi per vegliare sulle spoglie dell’amico nella chiesa ortodossa di rue Daru, rimanendo profondamente impressionato dall’apparato funebre e dal numero di persone influenti che avevano partecipato alla funzione (tra gli altri Lalo, Pauline Viardot-Garcia, Massenet e Turgenev). A Nikolai, fondatore del Conservatorio di Mosca, Čajkovskij era legato da un rapporto di amicizia molto profondo, rapporto che era stato non privo di gravi momenti di conflitto. Fu Nikolai, in una fatidica vigilia di Natale del 1874, a criticare con parole sprezzanti il famoso primo concerto per pianoforte e orchestra di Čajkovskij e a rifiutarsi di eseguirlo in pubblico alla “prima” (la scena del litigio è vividamente descritta da Ken Russell nel suo famoso film sul compositore russo). Ma lo stesso Nikolai Rubinstein rappresentò in molte altre occasioni una figura di riferimento e di aiuto molto importante per Čajkovskij: non si spiegherebbe altrimenti la sincera reazione di profondo cordoglio e la decisione di comporre un’opera di così vaste dimensioni e di grande impegno come il Trio. Golan, Vengerov e Maisky si sono immedesimati perfettamente nel clima di struggente passione di questa pagina, che ruota attorno all’indimenticabile “tema elegiaco” esposto nel primo movimento, e sono stati alla fine salutati dai commossi applausi del pubblico.

La mattina seguente il visitatore del Festival poteva assistere invece alla esecuzione di un programma molto gettonato: le tre sonate per violino e pianoforte di Brahms, completate come bis dallo Scherzo scritto dal giovane Johannes per la Sonata F.A.E. composta in compagnia di Schumann e di Albert Dietrich. Il duo scelto per l’occasione era quello estemporaneo formato da due divi del momento, il violinista Leonidas Kavakos e la pianista Yuja Wang. Il primo non ha certo beneficiato di un accompagnamento corretto ma lontano mille miglia dai requisiti espressivi del melos brahmsiano: l’apertura della Sonata in la maggiore (op.100) era in tal senso dimostrativa della mancanza di conoscenza, da parte della Wang, di come vada affrontato il fraseggio di un lavoro romantico, senza cadere nella semplice riproduzione meccanica. Ma è possibile che la osannata pianista non abbia mai ascoltato un disco che so, di Richter o di Rubinstein, per rendersi conto di che cosa si possa ricavare dall’esposizione del primo tema della Sonata stessa? L’esattezza tecnica qui conta assai poco: meglio ascoltare, come era possibile fare il giorno successivo, l’utraottantenne Menahem Pressler, precario fin che si vuole dal punto di vista della sicurezza digitale, per capire cosa significhi fraseggiare, sottolineare il significato recondito della linea musicale. In quel caso Pressler aveva accompagnato lo splendido Vengerov e i due si erano scambiati al termine affettuosi complimenti di fronte al pubblico. Vengerov è stato davvero un “angelo” come lo ha definito Pressler, nell’intonazione perfetta della Sonata di Franck e nel sostenere le melodie lunghe dei due difficili pezzi di apertura del recital, il Duo in la maggiore di Schubert e la Sonata op.96 di Beethoven.
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