
Concerti • Inaugurato ieri il primo appuntamento del nuovo “Progetto”, da sempre sintesi interessante di percorsi tra l’antico e il moderno. Matthias Pintscher (assente Boulez) ha diretto l’Ensemble Intercontemporain in Sur Incises; il pianista tra la Waldstein e l’Appassionata
di Luca Chierici
IL PRIMO APPUNTAMENTO DEL NUOVO CICLO “PROGETTO POLLINI” ha presentato quello che è lo schema generale dei quattro incontri che si terranno fino al 19 maggio prossimo: le sonate beethoveniane dall’op.53 all’op.111 da una parte e quattro proposte di musica contemporanea che comprendono lavori di Boulez e Stockhausen, di Sciarrino (autore del Carnaval che verrà affidato al figlio di Maurizio, Daniele) e Lachenmann. L’assenza di Pierre Boulez non ha impedito di ascoltare un capolavoro come Sur Incises che è stato eseguito con straordinaria bravura dai musicisti dell’Ensemble Intercontemporain diretti da Matthias Pintscher, direttore musicale del complesso ed egli stesso valente compositore. La densa partitura di Boulez, derivata dalla prima versione di Incises (un breve pezzo pianistico scritto nel 1994 e poi riveduto nel 2001), è pensata per un ensemble (tre pianoforti, tre arpe e tre percussionisti che si dedicano a una grande varietà di strumenti, in particolare due vibrafoni e una marimba) che dà luogo a impasti timbrici di impressionante impatto, sfruttando anche le potenzialità matematiche dei rapporti combinatori tra i vari strumenti e quelle fisiche di scomposizione spettrale delle sonorità. Pintscher ha dominato questa materia spesso allo stato incandescente con una sicurezza ammirevole e ha condotto per mano il pubblico attraverso il non facile percorso d’ascolto del lavoro.
La prima parte del concerto era dedicato alle sonate opp. 53, 54 e 57 di Beethoven, due delle quali (la Waldstein e l’Appassionata) rivestono una particolare importanza nel repertorio del pianista. Il ricordo delle emozioni che Pollini riusciva a trasmettere suonando le opp. 53 e 57 in anni oramai lontani, del suo controllo totale dello strumento, dell’utilizzo ancora parco del pedale di risonanza è tale da avanzare alcune perplessità su quello che è lo stato attuale del suo rapporto con la tastiera. Nessuno può mettere in dubbio la sua straordinaria sensibilità e profondità di pensiero nell’affrontare quelli che egli considera essere i momenti topici della letteratura musicale, ma è altrettanto vero che l’attuale trasposizione delle proprie idee attraverso il mezzo fisico sembra tradire non pochi problemi di insicurezza. Quelli che in passato erano momenti di crisi (presenti in tutti gli artisti di levatura superiore) che avevano contrassegnato in senso positivo gran parte della sua carriera, sembrano oggi lasciare il posto a una ripetizione ostinata di percorsi già collaudati, non più sostenuti da quel controllo assoluto del mezzo che aveva caratterizzato il suo periodo aureo. Già una ventina di anni fa la critica anglosassone aveva sottolineato una caratteristica piuttosto sconcertante del pianismo di Pollini, più evidente in alcuni autori che in altri, ossia la tendenza a non concedere nulla al gioco di tensioni e distensioni della frase musicale, sostituendo quella che è una componente irrinunciabile della retorica musicale (almeno nel repertorio “classico” che va da Bach a Debussy) con una presunta lettura oggettiva del testo. Ma quella che sembrava allora una presa di posizione teorica, peraltro mai confermata dal pianista, si è via via trasformata in una prassi che spesso lascia l’ascoltatore con il peso di mille interrogativi. Esempio lampante nel concerto dell’altro giorno è stato il movimento centrale dell’Appassionata: l’indicazione di Andante con moto può sì giustificare la scelta di una scansione più veloce dell’usuale, ma all’interno di quella il pianista non ha lasciato assolutamente respirare la linea melodica, come se avesse ritenuto necessario dimostrare la necessità di una esecuzione metronomica del testo beethoveniano. Diamo per scontato che nessuno si sognerebbe di eseguire metronomicamente un motivo di Mozart, un’aria di Rossini o il quartetto del Fidelio: non vi sono quindi motivi fondati che giustifichino le scelte del pianista. Sembra in altre parole che Pollini voglia oggi rifugiarsi in una obiettività assoluta che lo mette al riparo da qualsiasi tipo di interpretazione personale o tradizionale: una prassi che l’artista curiosamente segue in Beethoven e in Liszt ma non in Chopin, Mozart, Debussy quasi che il tipo di scrittura pianistica di questi ultimi abbia sempre rappresentato per lui una sorta di freno, un contenitore di perfezione tale da impedire qualsiasi deviazione da un fraseggio se vogliamo più tradizionale, nel miglior senso del termine.
Ma vi è un’altra considerazione da fare. La grande generazione dei pianisti più famosi dello scorso secolo che si potevano ancora ascoltare fino agli anni ’80 ha prodotto numerosi esempi di personalità di livello straordinario che hanno continuato a suonare in pubblico fino a un’età davvero invidiabile, addirittura novant’anni nel caso di Rubinstein, e molti più di ottanta per Arrau, Horowitz, Kempff o Serkin o Backhaus. Questi personaggi, dei quali Pollini ha sempre riconosciuto l’enorme statura e l’inconfondibile personalità, avevano decisamente cambiato il loro approccio alla tastiera con l’avanzare dell’età: in genere una ridotta velocità di esecuzione veniva compensata da una ancor più meditata attenzione ai contenuti musicali, al suono e alla qualità del fraseggio. Il percorso di Pollini, che oggi ha 71 anni, sembra andare nel verso opposto, e allo stato attuale delle cose non sappiamo a quali esiti futuri potrà condurre.
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Ero al concerto che recensisce e anche a quello di ieri sera (dove il maestro ha suonato ‘Hammerklavier’ per intenderci). Da appassionata non musicista non sono in grado di cogliere gli aspetti che scrive, ma mi auguro che recensisca anche il concerto di ieri sera così da approfondire la riflessione.