Il Festival della Valle d’Itria prosegue la riproposta delle opere di uno dei compositori settecenteschi più prolifici della Scuola napoletana. Direzione musicale di Diego Fasolis
di Luca Chierici
NON POTEVA MANCARE QUEST’ANNO, per la quarantesima ricorrenza del Festival, la scelta di uno nuovo titolo che si riferisce a uno dei più fortunati filoni che hanno guidato da sempre gli indirizzi artistici a Martina Franca, quello della rivalutazione del melodramma settecentesco di scuola napoletana e pugliese. Tommaso Traetta (1727-1779), nativo di Bitonto, conosce un tipico percorso di carriera che lo vede dapprima allievo di due grandi maestri (Porpora e Durante) a Napoli e poi ammiratore e collaboratore di Jommelli. La nomina a Maestro di musica a Parma, presso la corte dei Borboni (1758), lo pone al centro di un’azione voluta dal ministro Du Tillot, volta a combinare le caratteristiche della tragédie lyrique francese con quelle dell’opera italiana. Per questo motivo viene richiesta al poeta di corte Frugoni la traduzione del testo dell’Hippolyte et Aricie di Rameau. A Traetta è affidata la musica (il titolo verrà ripreso proprio a Martina Franca nel 1999), spesso veicolata in vista delle qualità vocali del celebre soprano Caterina Gabrielli. Due anni più tardi l’occasione si ripete grazie a un evento prestigioso, le nozze di Isabella di Borbone con il futuro imperatore d’Austria, Giuseppe II. A Traetta viene questa volta proposto, secondo gli stessi paradigmi, il rifacimento dell’Armide, già musicata da Lully su testo di Quinault. Ancora la Gabrielli è protagonista di spicco e l’opera di Lully è trasformata in “festa teatrale” grazie agli interventi del Conte Durazzo, Direttore generale degli spettacoli alla corte viennese, e del poeta Migliavacca. La prima esecuzione avviene nella capitale austriaca nel gennaio del 1761 con un successo che conosce entusiastiche repliche anche a Napoli e Venezia. Armida risulta essere così un lavoro dalle caratteristiche multiformi, che sull’ossatura dell’aria con da capo e cadenza finale di stile napoletano inserisce duetti, cori, brevi ma pregnanti interventi strumentali (come ad esempio quello che precede il recitativo di Idraote «Popoli a gara» al termine della scena seconda) dove si capisce a quali modelli o a quale koiné linguistica abbia attinto più di vent’anni dopo il Mozart dell’Idomeneo. Il cammino costellato di successi del nostro compositore procederà a Vienna con una Ifigenia in Tauride (anch’essa ripresa a Martina, nel 1986) e a San Pietroburgo alla corte di Caterina II dove Traetta raggiungerà probabilmente l’apice della sua produzione con l’Antigona, quarto titolo scelto dal Festival, in forma di concerto, nell’oramai lontano 1977.
Salvo alcune riprese parziali e non in forma scenica, quella di Martina Franca è ogg la prima rappresentazione teatrale in tempi moderni, secondo la revisione della musicologa Luisa Cosi. Ad essa sarebbe stato opportuno associare un intervento registico più indovinato di quello gestito da Juliette Deschamps, che fidandosi del proprio intuito (“Fare uno spettacolo con poco”) non avrà sicuramente pesato sulle finanze della rassegna, cosa certamente meritevole di questi tempi, ma ha ridotto lo splendore dell’originaria festa teatrale in un desolante spettacolino che certo non appagava l’occhio, complici anche le più che scarne scene di Nelson Willmotte e i costumi di Vanessa Sannino. Le didascalie del libretto prevedono un notevole spostamento di azione (tra la “gran piazza di Damasco” e il palazzo incantato di Armida) ma la regista e lo scenografo non hanno approfittato nemmeno di questo particolare per ravvivare una scena che si è rivelata statica passerella per gli interventi dei cantanti. Per fortuna i danzatori della Fattoria Vittadini che abbiamo già lodato a proposito della Donna serpente di Casella hanno anche questa volta contribuito a movimentare lo spettacolo.
Ben diciassette arie solistiche, molte delle quali si concludevano come già accennato con cadenze non sempre sviluppate (un intervento ricostruttivo in tal senso avrebbe portato l’esecuzione a raggiungere limiti temporali eccessivi) richiederebbero oggi voci che non esistono più. Il miraggio di un recupero di emozioni irripetibili rimane ovviamente tale pur con l’apporto valido degli interpreti che hanno onorato questa ripresa. Roberta Mameli, Armida, si è difesa con bravura nelle agilità e nella tessitura acuta dei suoi numerosi numeri, con un crescendo di risultati che è andato via via confermandosi con il procedere delle scene: da «Io non cerco ed io non amo» alla meglio definita «Respira già contento» nella scena XI sino all’aria di furore finale che viene chiusa bruscamente da un disegno degli archi all’unisono. Anche Marina Comparato, Rinaldo, si è fatta notare all’inizio soprattutto per il lato virtuosistico, senza impressionare per la qualità di emissione sia nel registro grave che in quello sovracuto soprattutto nella scena V («Sol d’onore»). Solamente a partire dalla cavatina «Di quest’aura», uno dei momenti più alti dell’opera, la Comparato ci è sembrata più a proprio agio in un personaggio che, non lo dimentichiamo, era inizialmente pensato per una voce di castrato. A parer nostro l’opera barocca rivive meglio ai nostri giorni se ad essa viene associato l’impiego di ottimi sopranisti, come del resto è stato fatto più volte a Martina Franca con la presenza di star come Franco Fagioli. La voce piuttosto tagliente di Maria Meerovich non ha di contro aiutato nella definizione del ruolo di Artemidoro (altro evirato cantore), così come l’Idraote di Leonardo Cortellazzi ci è sembrato piuttosto anonimo. Particolare successo è stato giustamente attribuito al giovane Mert Süngü, uscito dall’Accademia Celletti e bravissimo interprete del ruolo di Ubaldo, con una particolare riuscita nell’aria «Grato core e core amico» nella scena XVIII. L’Orchestra Internazionale d’Italia in versione cameristica, che spesso ha mostrato una non ottimale gestione degli strumenti d’epoca (in particolare i corni), è stata guidata da uno specialista molto noto del repertorio barocco come Guido Fasolis, accurato ma non particolarmente estroso.
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