Città di Castello, Festival delle Nazioni. La 47a edizione è stata dedicata alla ricchezza musicale del paese caucasico, tutto da scoprire. In questo contesto si è calato il musicista spagnolo con il suo ensemble Hespèrion XXI
di Giampiero Cane
STUDIARE ANCHE SE SOLO PER ALLUSIONI e immagini le Nazioni attraverso le loro musiche, come da quarantasette anni si fa a Città di Castello, in Umbria col Festival delle Nazioni appunto, è impresa che non può aspirare a far più che qualche passetto nella conoscenza, oltre le suggestioni, perché solo nell’isolamento culturale, nella musica d’uso, laica o religiosa che sia, quest’ultima può incontrarsi con l’idea di nazione, idea vecchia che servì per le formazioni statali dopo il medioevo per un mezzo millennio, che servì a disegnare l’Europa, la Russia, la Cina, l’India, ma a massacrare l’Africa, pretendendo di sostituirsi alle divisioni tribali, che erano, e forse sono, quelle in cui a sud del Mediterraneo si configurano antropologicamente le nazioni.
Quest’anno, a Città di Castello è stato il turno dell’Armenia, repubblica caucasica dall’esistenza tormentatissima, la cui popolazione fu sterminata dai Turchi, la cui esistenza fu asservita all’Unione Sovietica, rinascendo all’indipendenza dopo il recente crollo di quell’impero. Nell’antichità, gli armeni furono tra i primi popoli che si convertirono al cristianesimo. Con quella ch’era allora la loro musica, come cantavano i languori amorosi, con brevi temi cromatici e loro variazioni (potenzialmente infinite) così cantarono la nuova divinità; con questa musica nei secoli avvenire, in Europa cristiani, si guadagnarono titoli di merito nel campo musicale.
In seguito, per secoli, non ci sono segni di una significativa vita musicale, ma anche genericamente culturale. Viene attribuito a un turco, Vardapet Komitas (1869-1935), il merito di aver studiato quella tradizione musicale, favorendone la valutazione, conservazione e diffusione. Oggi, i musicisti armeni che si conoscono han pressoché tutti cognomi che finiscono in “ian”, come Armen Tigranian, del quale in quest’occasione non s’è ascoltato nulla, o Aram Khačaturjan (tra il resto, ovviamente “la danza delle spade) o Vache Sharafyan, musicista vivente con le cui opere abbiamo mancato l’appuntamento.
Nel mare ben poco agitato dalla creatività degli Harut’unian, Hovhanesian, Babadjanian, Sarian, Mansurian e, per citarne uno con altro finale, Hovunts, in questo mare pallido s’è calato alla grande Jordi Savall in un concerto con Hespèrion XXI, un inno alla melanconia, durante il quale Savall ha preso la parola per dire come, in fondo, una musica così, smorzata, leggermente cullante, interdittiva di emozioni appassionate sia l’unica, a suo dire, che può accompagnarci, consolandoci un po’ in questo mondo nel quale i “pessimati” (mio neologismo per dire l’opposto di quel che è “ottimati” nella civiltà latina) sono venuti occupando le poltrone, poltroncine e sedie che hanno sostituto, ma anche moltiplicato i troni.
Savall è amante di musiche che vestono l’a-storico, una sorta di proto romanticismo che potrebbe vivere sotto l’immagine di Tristano e Isotta (non quella wagneriana) prolungandosi fino ai dolori veneziani di Aschenbach (Morte a Venezia, di Thomas Mann). Le sue esecuzioni non sono di filologia integralistica (per esempio usa un archetto moderno anziché quello concavo), ma sono già del purgatorio, si vestono in tutto di modestia, il che non significa che sia modesto il suono che egli ottiene, ma è anch’esso vestito di modestia.
In quest’occasione c’era un cantante popolare che direi sia di ottima qualità, Aram Movsisyan, e con lui due suonatori di duduk, Georgi Minasyam e Haïg Sarikouyoumdjian (non è colpa mia), con un suonatore di kamancha, Gaguik Mouradian. Il duduk è un oboe di modestissima potenza, ma di gran fascino sonoro; l’altro uno piccolo strumento ad arco, con quattro corde, ma senza ponticello. Quel che ne esce è propriamente musica da camera. Abbandoni e morbidezze caratterizzano l’effetto, ma non sono affatto sicuro che le musiche messe in campo per propria natura non siano equivalenti del lagne sentimentali che venivano dall’Ariston di Sanremo anni fa (personalmente oggi non so).
La musica non spicca per individualità. Visto che questo è quel che ci vien detto non possiamo pensarla che come musica armena; il che, trasportandoci in Italia dovrebbe voler dire musica italiana senza Monteverdi, senza Anerio, senza Caldara e, via via, Leoncavallo, Martucci, Nono, per non scomodare i maggiori.
Non posso dire di non trovare il tuo linguaggio abbastanza ermetico, ma questo articolo presenta per me grande interesse, perché Jordi Savall* è per me da anni quel che si dice “un mito”, come sua moglie, Montserrat Figueras, che era mia coetanea.
Ascoltare la musica armena mi sarebbe piaciuto non poco.
Peccato non rientrare fra quei “pessimati” ( devo adottare il tuo neologismo.. è dall’infanzia che non ne creo più )
Chissà che su you tube non si trovi qualcosa.
Comunque, nella mia ignoranza crassa, conoscevo il duduk: stupisci.. ma io sono curiosa di tante, troppe cose, e appena posso approfondisco.
Salvo poi dimenticare regolarmente due terzi di quanto ho scoperto o creduto di imparare.
Ma gli stimoli non si buttano via mai, per quanto possibile.
* Proto romanticismo, eh?
Sono molto contenta di averti scovato e letto qui, stasera.