Il pianista leggendario, ultimo tra gli storici interpreti, diretto da Umberto Benedetti Michelangeli con l’Orchestra da camera di Mantova
di Cesare Galla foto Stefano Staccano
ALDO CICCOLINI entra in scena sorreggendosi al braccio del direttore Umberto Benedetti Michelangeli e appoggiandosi al bastone, i passi cauti e lenti. I suoi dignitosissimi 89 anni appaiono inesorabilmente fragili. Il pubblico che affolla il Teatro Sociale di Mantova, dove s’inaugura “Tempo d’orchestra”, la stagione sinfonica della brillante formazione mantovana, sembra seguirlo con il fiato sospeso mentre prende posto al pianoforte per il Concerto K. 466 di Mozart. La lunga introduzione orchestrale è una pagina sinfonica densa e dolorosa, che annuncia l’oscuro carattere espressivo di questo capolavoro. Ciccolini è raccolto in un’immobilità lontana, quasi innaturale. E invece è “dentro” la musica come raramente capita di ascoltare nelle sale da concerto. Lo si capisce alla prima nota, al primo accordo. Il pianista napoletano che ha scelto la Francia come seconda patria esprime un magistero severo e profondo, e illumina con la delicata sensibilità di mille particolari una visione di trascendente classicità anche in una delle pagine mozartiane più “romantiche”.
Il tocco è carezzevole, nitido e pensieroso; non si nega all’accentuazione teatralmente drammatica – come nella sezione centrale della Romanza, il secondo movimento – ma la riconduce a una superiore limpida compostezza. In effetti, è Mozart “in trasparenza”, quello che Ciccolini disegna nella sua interpretazione: un viaggio nel cuore del genio salisburghese compiuto con studio, stile, idee chiare e distinte distillate in un suono quasi affettuoso e capace di mille sfumature pur nella meditata essenzialità della gamma dinamica. La cifra più caratteristica è quella di una malinconica serenità, la stessa che la compagine mantovana, dove molti degli esecutori potrebbero essere suoi nipoti, attinge con la naturalezza di un’orchestra oggi al culmine nel panorama italiano per qualità e musicalità.
Dopo l’intervallo, ci penserà un altro sommo capolavoro, il Concerto K. 488 in La maggiore, a regalare al pubblico le sensazioni che nascono solo le rare volte in cui si è coscienti di assistere a una “rivelazione”: quella della suprema luminosità dell’Adagio, o della brillantezza del conclusivo Allegro assai, vissuta e proposta come percorso interiore cui l’ancor impeccabile eleganza e nitidezza di tocco garantisce un “plus” di raffinatezza oggi sempre più rara.
Alla fine è “standing ovation”, in un’emozione che accomuna chi ha ascoltato con gli stessi componenti dell’orchestra, mai così “avvinti” dalla presenza di questo superbo musicista. E bastava guardarne i volti durante le cadenze, a orchestra ferma, per rendersene conto.
Grandinata di applausi, a cui Aldo Ciccolini, da uomo di spettacolo senza confini anagrafici, risponde carismaticamente con una superba incursione nei mondi fantastici del Brahms della tarda maturità, con l’Intermezzo op. 118 n. 2. E poi, dato che tutti restavano in piedi ad applaudire, senza accennare ad andarsene – scena mai vista in una sala da concerto –un’ultima goccia di sapienza e passione nel nome di Domenico Scarlatti e di una sua Sonata. Antichi pensieri musicali resi chiari e commoventi nella loro assoluta attualità.