Ripresa del titolo verdiano al Teatro alla Scala: co-produzione con la Staatsoper di Berlino. Direzione di Daniel Barenboim
di Luca Chierici
UN’ONDATA DI COMMOZIONE ha investito il pubblico del Teatro alla Scala l’altra sera al termine della ripresa del Simon Boccanegra di Verdi, spettacolo co-prodotto con la Staatsoper di Berlino che era stato già andato in scena nel 2010 con un cast leggermente diverso ma sempre sotto la guida di Daniel Barenboim e la partecipazione di Plácido Domingo nel ruolo principale. Il Simone è un’opera che riveste un significato del tutto particolare per la Scala, dove venne tenuto a battesimo e poi in cartellone per diversi anni uno spettacolo indimenticabile guidato dalla direzione di Claudio Abbado e la regìa di Giorgio Strehler e dove nel 1988 Georg Solti ne diresse una versione in forma di concerto rimasta memorabile. Ripensato da Verdi ventiquattro anni dopo la prima versione del 1857, lo stesso numero di anni che nella vicenda separano lo svolgersi degli avvenimenti nel Prologo e nell’Atto primo, il Simon Boccanegra diventa dunque una cronaca degli avvenimenti che segnano l’ascesa e la morte del protagonista e assieme una meditazione sulla trasformazione dei caratteri umani, sull’amore, l’impegno civile e politico, i cupi risvolti della fama e del successo, l’invidia.
Il ruolo di Simone è uno dei più difficili in assoluto del teatro verdiano e in questo si comprende perfettamente come Plácido Domingo abbia voluto misurarsi con esso alla fine di una gloriosa carriera di tenore, quando il cambio di registro è diventato un intelligentissimo espediente per proseguire da par suo un così intelligente studio dei caratteri più famosi che per ovvi motivi egli non aveva potuto affrontare in precedenza. Da questo punto di vista sarebbe vano giudicare Domingo con lo stesso metro utilizzato per un grande baritono in carriera. In questo caso vale la pena di concentrarsi più su quello che un personaggio simile ci può dare in termini di insight del ruolo, piuttosto che accanirsi su altre argomentazioni tecniche. Domingo aveva come partner cantanti di buon livello, primo tra tutti Fabio Sartori, già Gabriele Adorno nel 2010, un cantante che incarna perfettamente la tipologia del tenore verdiano “classico” nella scia dei Bergonzi e dei Pavarotti. Anche in questo caso, non è necessario avanzare dei confronti puntuali, dei paragoni insostenibili, quanto notare qual è il modello di riferimento: la voce e l’interpretazione di Sartori sono modellate sul passato e come tale vanno considerate.
Orlin Anastassov, a parte qualche menda vocale, ricorda a tratti la nobiltà del Fiesco di Ghiaurov; Artur Rucinski si è segnalato nel non facile ruolo di Paolo Albiani e Tatiana Serjan è stata una Amelia incantevole. Daniel Barenboim ha riletto la musica verdiana con grande partecipazione e sapienza, contribuendo a condurre la serata verso il traguardo del successo finale. Vorremmo ascoltare da lui al pianoforte la grande reminiscenza lisztiana sul Simone, nella quale saprebbe dire cose egregie, soprattutto nel sublime finale. La regìa di Federico Tiezzi ha mantenuto un suo certo fascino nei momenti più poetici, mentre le scene di Paolo Bisleri ci sono sembrate ancora più deboli e incongruenti di quanto ci erano apparse quattro anni orsono.
Purtroppo oggi con gli appositi appogi pecuniari si puo comprare quasi tutto,sottolineo quasi,infatti grazie a dio ogni tanto poi c’è qualcuno che nomina le cose come esse si presentano.Peccato che la prestazione della Kathia Buniatishvili non sia stato commentato anche da altri critici con la dovuta distanza.