
A Torino una emozionante Patetica di Čajkovskij e una lettura inconsueta dei Quadri di una esposizione
di Attilio Piovano
UNA PATETICA DAVVERO EMOZIONANTE quella diretta da Valery Gergiev alla guida dell’Orchestra pietroburghese del Mariinskij, la sua orchestra, la sera di martedì 9 dicembre 2014, a Torino: per la stagione di Lingotto Musica dove è assiduo da molti anni, per la gioia del pubblico e dei suoi numerosi fans. Una Patetica molto coinvolgente sul piano emotivo, ancorché piuttosto inconsueta, specie per certe inedite scelte agogiche e così pure dinamiche. Molti, poi, i dettagli, magnificamente messi in luce, spesso, in altre interpretazioni, del tutto disattesi. E allora già all’esordio un’indicibile estenuazione sonora nel celebre tema del fagotto. E subito, in apertura della scheggia di Adagio iniziale, si è sprigionato quel colore inconfondibilmente russo che dalla partitura promana. Poi i languorosi tira e molla, ma anche le mille sfumature fatte di luci ed ombre e per contro le nitide contrapposizioni (archi e legni saettanti) nell’incandescente Allegro. E qui l’espandersi calmo e sensuale del celeberrimo tema del clarinetto che di questo primo tempo è la firma, quasi il ritratto stesso di Čajkovskij. Tema che Gergiev, potendo contare su una compagine di prim’ordine ha cesellato con indicibile charme. Tumulti e tempestosa temperie nel vasto sviluppo dove l’orchestra ha sfoderato un suono smaccatamente e inconfondibilmente ‘russo’, a tratti fin aggressivo, laddove siamo avvezzi a interpretazioni assai più estetizzanti e levigate (un Temirkanov, per dire, pur sommo e idolatrato direttore che amiamo oltremodo).
Molti i dettagli ai quali Gergiev dedica una cura certosina, sicché elencarli risulterebbe forse perfino pedante (uno per tutti: l’epilogo del primo tempo con quello sfumare dal più che fortissimo in pianissimo nel giro di poche misure), gli incalzando e più ancora i ritenuto che Gergiev ha oltremodo esasperato, con effetto di innegabile emozione, il più che pianissimo ottenuto dai timpani. Ciò nonostante mai viene meno la visione d’insieme del vasto quadro sinfonico nel quale Čajkovskij riversa, come in pochi altri casi, i tormenti biografici. Ecco allora la parentesi leggiadra e leggera (ma solo in apparenza) dell’Allegro con grazia prossimo al clima smagato dei balletti. Ma Gergiev ci ha fatto intendere come (anche qui) invero la tragedia covi sotto la cenere: i rarefatti pizzicati degli archi e la cantabilità effusiva contrapposti gli uni gli altri, con magnifiche pennellate di colore. Una lettura da brivido, quella del superbo Allegro molto vivace che invariabilmente in chiusura strappa l’applauso, dopo l’incedere festoso di una marcia davvero inarrivabile. Ha vinto la scommessa chi giurava che una sparuta pattuglia non avrebbe resistito. E infatti così è stato, ma Gergiev dopo le incandescenze e l’ebbro scintillio di questo superlativo Scherzo non ha tardato un solo secondo a fiondarsi tra le spire del sublime Adagio lamentoso che suggella la Sesta, non prima di regalarci ancora perle preziose di adamantina bellezza melodica, sferzate da ondate procellose, specchio di una tragedia interiore, e da ultimo il lugubre rintocco delle estreme misure, preceduto dal soffocato corale degli ottoni (Čajkovskij scrive cinque ‘p’ di più che pianissimo e Gergiev le ha fatte davvero) e lì si capisce che è tutto finito, non c’è più speranza e solo la morte incombe inesorabile. Tutto questo era nella lettura di Gergiev e della vasta compagine del Mariinskij dalle ottime prime parti (un primo clarinetto ‘da sballo’).
In apertura di serata emozioni, sia pure dopo un filo di iniziale sconcerto, con i musorgskijani Quadri da una esposizione. Scelte inconsuete di tempi e fraseggi, messa in evidenza di particolari quasi sconosciuti, sicché ne è emersa una partitura come rinnovata, come ri-orchestrata, nonostante si trattasse – ovviamente – dell’intramontabile versione raveliana. Lentissima la Promenade iniziale e intenzionalmente priva di quell’enfasi che altri direttori le conferiscono, molto pacato anche Gnomus che altri eseguono in maniera nevrotica (ma che atmosfere timbriche livide, grottesche e fantasmatiche). Un Vecchio castello incredibilmente sostenuto, con inediti ed esasperati rallentando (e veniva da pensare a Gergiev come un Glenn Gould della bacchetta, se i lettori mi permettono la metafora), tanto pareva (intelligentemente) provocatoria la sua lettura. Cristalline delicatezze in Tuileries e una miriade di dettagli timbrici perfettamente a fuoco: vera lezione di stile.
Clima più onirico che simbolista inizialmente in Bydlo, mai ascoltato – però – così lancinante nel suo crescere irresistibile, come macchina da guerra, con la sventagliante mitragliata delle percussioni, una visione quasi cinematografica, da zoom che porta tutto in primo piano (e pazienza per il vistoso incidente occorso alla tuba, son cose che accadono anche nelle migliori orchestre, certo il malcapitato si sarà sognato per tutta la notte la sua défaillance benevolmente perdonato da Gergiev che avrà avuto parole buone anche per qualche altro piccolo sbandamento verificatosi qua e là). Graziosi e pieni di charme i Pulcini nel guscio (e così pure luminescenti atmosfere in Limoges affrontato a velocità toccatistica, come avrebbe fatto Glenn Gould volando sulla tastiera), molta cautela invece nei Due ebrei, apparsi più amiconi concilianti che non entità contrapposte (la sicumera tronfia del ricco e l’untuosa petulanza del povero resa dalla tromba soffocata, venute un poco meno, in verità ed un peccato).
Molto, molto pathos invece nelle Catacombe dagli altisonanti clangori degli ottoni, poi la lenta risalita alla luce resa dal tremolo incorporeo degli archi, la percussiva e allucinata atmosfera della strega Baba Yaga (ma con la sezione centrale restituita magnificamente grazie ancora all’ottimo clarinetto) e poi via senza soluzione di continuità (comme il faut) entro la Porta di Kiev, affrontata a velocità sostenuta e dunque in apparenza privata della sua monumentalità: ma era scelta calcolata dacché nell’ultima sezione (dopo l’avviarsi del rintocco delle campane che non abbandonano più la pagina dominando sino all’ultimo) Gergiev ha molto rallentato, con effetto a dir poco trascinante e in chiusura un trionfo di percussioni raramente ascoltato con tale inedito sound. Un suono molto russo, laddove siamo abituati ad ascoltare invece i Quadri con sonorità per lo più – mi si passi il termine – assai occidentali ed addomesticate. Una lezione di stile, merita ribadirlo, più ancora una testimonianza preziosa con interpreti doc. Del resto un’orchestra russa con un direttore russo che suona musica russa: non poteva essere altrimenti. E le emozioni, davvero, non sono mancate.