Al Teatro Comunale la versione originale del capolavoro di Šostakovič. Di nuovo in Italia dopo il Ravenna Festival 2003, lo spettacolo del Teatro Helikon trova una componente nuova e valida nell’orchestra e nel coro residenti
di Francesco Lora
È FORSE IL CAPOLAVORO TEATRALE di Šostakovič. Eppure, al Teatro Comunale di Bologna la Ledi Makbet Mcenskogo uezda (“Lady Macbeth del distretto di Mcensk”) non si era ancora mai vista. O, per meglio dire, non si era mai vista nella sua versione originale del 1934, quella del travolgente successo mondiale e degli elogi di Toscanini e Britten, condannata però a morte dal regime sovietico dopo il disgusto di Stalin. Nel 1968 di Bologna dotta, grassa e soprattutto rossa, al Comunale era invece subito comparso il rifacimento del 1962, quello edulcorato e reintitolato Katerina Izmajlova: una novità da conoscere, per quegli anni; per i nostri giorni, una seconda scelta. Il debito verso la versione originale è stato ora pagato con un ciclo serrato di sei recite in sette giorni: 4-10 dicembre, pubblico rado, successo vivo. E si sono riaffacciate vecchie conoscenze.
Il regista Dmitry Bertman, lo scenografo Igor’ Neznyi e la costumista Tat’jana Tulub’eva sono gli artefici dell’allestimento scenico, importato dal Teatro Helikon di Mosca e già visto tal quale al Ravenna Festival 2003. Uno spettacolo essenziale, agile ed economico, dove il testo teatrale e musicale, in sé sospeso tra verismo ed espressionismo, pare ulteriormente ripassato nel surrealismo: la camera di Katerina è una vera e propria gabbia dove l’allodola degenera in leonessa, il luogo è un fisso groviglio di tubi industriali e inesorabili ventole, la deportazione in Siberia è un momento di follia generale e autoesame, i personaggi sono accorpati in un minor numero di interpreti (da una parte risparmiando sui cachet, dall’altra indagando le doppiezze psichiche; e il personaggio di Sonetka appare, all’interessata e a tutti, come un sosia dell’annoiata Katerina dell’atto I).
Dal Ravenna Festival torna a Bologna anche il direttore Vladimir Ponkin: ieri alla testa di Orchestra e Coro del Teatro Helikon in tournée romagnola, e oggi insieme con i neoconosciuti Orchestra e Coro del Teatro Comunale, egli ripete una lettura egualmente corazzata, entusiasta e sfacciata di colori e schianti, procurando ai complessi felsinei una prova tra le più felici della stagione ora conclusa. E nomi già presenti nelle due compagnie di canto ravennati ricorrono ancor oggi qui e là nelle due compagnie di canto bolognesi: nessuna voce è formidabile, ma tutti sono solidi professionisti di una compagnia stabile russa, capaci di restituire con franchezza la parte assegnata e nel contempo di fare squadra a vantaggio del congegno teatrale e musicale.
Nella prima compagnia, qui recensita, la parte della protagonista tocca dunque a un’Elena Mikhailenko immedesimata con fervore, non onnipotente come un’eroina ma donna al limite delle proprie possibilità, canore e nervose e attoriali, con ciò prestando ottimo materiale allo studio che Šostakovič si prefiggeva sull’identità della donna russa. Ruvido e gagliardo senza scadere nel volgare e caricaturale è Alexey Tikhomirov nella parte del suocero Boris, e flebile e pavido risulta opportunamente, nel gesto ansioso e nel canto querulo, Dmitry Ponomarev come Zinovij. Onesto Vadim Zaplechny come Sergej: la prestanza fisica dello sciupafemmine e la baldanza vocale del tenore alla russa si incontrano, per compromesso, a metà strada senza miracolare alcune delle due parti. Squillante e maliziosa Maya Barkovskaya come Aksin’ja, bronzea e sensuale Larissa Kostyuk come Sonetka.