Freschezza e fluidità, coerenza interpretativa ed efficacia hanno caratterizzato la lettura di Daniele Gatti alla testa della Mahler Chamber Orchestra
di Attilio Piovano foto Pasquale Juzzolino
GRAN BELLA CONCLUSIONE DI STAGIONE per Lingotto Musica, la sera di venerdì 29 maggio a Torino: nel segno di Beethoven, con la Mahler Chamber Orchestra diretta da Daniele Gatti che, dopo aver affrontato da par suo lo scorso gennaio la Prima, la Seconda e la fantomatica Quinta, ha ora interpretato l’Eroica, abbinata con felice scelta alla relativamente meno eseguita (e stupenda) Quarta. L’integrale delle nove sinfonie è destinata a concludersi il prossimo anno: appuntamento pertanto al 4 febbraio 2016 per Sesta e Settima e (addirittura fra un anno) al 27 maggio 2016 per l’Ottava e la monumentale Nona. Da segnare fin d’ora in agenda (non solo per torinesi, beninteso).
La Terza dunque. Raramente la si è ascoltata eseguita con tale intensità, sobrietà e nel contempo efficacia. Un’Eroica molto composta quella di Gatti, lontana dal facile e capzioso effettismo di altri direttori. Tutto nei tempi giusti, coi giusti fraseggi, colori adeguati e – da rilevare – una miriade di particolari in evidenza, ma senza inutili provocazioni, senza smancerie né manierismi o tanto meno bizzarrie. Del resto è tutto nella partitura, certo occorre interpretarla con sagacia e intelligenza, equilibrio e senso della forma ineccepibili. Un gesto pacato e sempre funzionale al risultato sonoro, quello di Gatti che dell’Allegro iniziale ha posto in evidenza più la scioltezza che la solennità rilevata da altri, più l’omogeneità come di blocco uscito da un’unica colata che non i contrasti, pure posti in luce. E allora è stata una vera gioia per chi ha optato per seguire sulla partitura (cartacea o sull’iPad, non importa: oggi anche questo accade tra gli audiofili in sala da concerto ed è bello constatarlo).
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Molti i dettagli emersi. Per dire (e per i maniaci dell’analisi tra i nostri fedeli e colti lettori): quanta freschezza in quegli spostamenti d’accento nel tratto (ci si perdoni la pedanteria) alle battute 124 e seguenti, che introducono un passo suggestivo in cui già Brahms occhieggia tra i pentagrammi. Quanta souplesse e quanta grazia, giù giù sino alla ripresa e al catartico epilogo in cui Gatti ha evitato apici eccessivi di dinamica e dunque nessuna atmosfera esagitata.
Poi i pianissimo impercettibili e le sonorità soffocate della Marcia funebre, affrontata giustamente senza troppa dilatazione agogica, insomma un Adagio davvero comme il faut, e pure quanta intensità e quanto pathos, con l’insistita terzina come un monito, discreto e presente al tempo stesso, la virile scorrevolezza del Trio, in maggiore e la riapparizione fantasmatica del tema, il passo col lungo pedale di re che pare riallacciarsi alla bachiana Passione secondo Matteo e infine le smozzicate frasi delle ultime misure. Una lezione di stile. Così anche lo Scherzo, con quei crescendo in cui la Mahler Chamber Orchestra prendeva giri come un propulsore perfettamente a punto e il turbo che scarica cavalli sull’asfalto, gli staccati mai aspri e pur nettissimi, l’esattezza ritmica a dir poco assoluta. Lodare le prime parti della MCO pare un’ovvietà, eppure i corni un elogio se lo meritano senz’altro (il Trio dello Scherzo) ma anche i legni (fagotto, in primis, e flauto e oboe e clarinetto), ottimi i timpani, ambrato ed espressivo il colore degli archi. Da ultimo il Finale che – si sa – si apre con quel gesto flamboyant che pure Gatti ha molto trattenuto.
Che piacere seguire in partitura le emersioni del fugato, una lettura a dir poco apodittica, una lezione di forma. E anche in chiusura dove il tema solenne giunge per aggravamento con gli ottoni bene in vista e dove è facile cedere alle seduzioni di un certo plateale effettismo (o anche nella bonaria metamorfosi “all’ungherese”), nulla è parso eccessivo; ancora occorre rilevare l’equilibrio e la sobrietà da manuale, insomma una vera lezione di stile, una lettura che poneva in evidenza tutti i nessi formali avvinti al passato (ad esempio il passaggio che richiama con chiarezza la mozartiana K 550 e siamo alle battute 249 e seguenti, non a caso adagiate nel medesimo sol minore) come pure le inaudite modernità di tale capolavoro beethoveniano.
Analogamente Gatti e la MCO hanno regalato vive emozioni con la Quarta, in apertura di serata. E allora il misterioso Adagio introduttivo, affrontato con molta circospezione, sì da renderne palpabile il contrasto con l’Allegro, filato via liscio con scioltezza e snellezza notevoli. Che gioia riconoscere al volo quel celeberrimo dialogo a canone tra clarinetto e fagotto che è sempre un piacere inseguire. E che freschezza nel porre in luce il carattere umoristico di questo primo tempo, tutto boutades e arguzie non immemori di certo Haydn, ma ormai con un segno inconfondibilmente beethoveniano. La cesellata soavità dell’Adagio che talora pare infinito (e perfino greve) in certe letture. E che invece con Gatti è una sorgente di acqua pura ad ogni battuta, ad ogni nuova emersione di singoli timbri. E ancora occorrerebbe soffermarsi sui molti dettagli messi in primo piano entro lo Scherzo, pur senza mai perdere di vista la visione d’insieme sino al Finale, che si avvolge talora su se stesso con toni da filastrocca (quel tema bofonchiato dal fagotto e pare richiamarsi alla Sonata op. 31 n. 3, per l’analoga popolaresca allure). E fa piacere constatare come Gatti abbia colto perfettamente lo humour di tale partitura, spesso posto in ombra, mentre ne costituisce – a nostro avviso – uno dei motivi di maggior fascino, restituendoci il ritratto di un Beethoven ancor giovane e solare, un Beethoven euforico, ottimista e fin giocherellone, per par condicio con gli abissi di ipocondria di certe altre ben note pagine. Applausi protratti al termine di una memorabile serata, e tutti a canticchiare i temi più noti e facilmente memorizzabili di questi due capolavori del titano di Bonn.
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