Battesimo pesarese per l’opera buffa restituita a completezza: lo spettacolo è eccellente in ogni aspetto
di Francesco Lora foto © Amati Bacciardi
LA FONDAZIONE ROSSINI DI PESARO non ha fretta, e preferisce tenere un’edizione critica a lungo in quarantena piuttosto che porla in commercio senza il dovuto collaudo. Eppure la partitura della Gazzetta a cura di Philip Gossett e Fabrizio Scipioni – eccellente restauro di un titolo raro a partire da manoscritti lacunosi – era andata in stampa subito dopo le recite al Rossini Opera Festival del 2001, benché priva di un’importante chiave di volta narrativa come il perduto quintetto dell’atto I: cerca e cerca, non se n’era trovata traccia e si era persino supposto che quei versi presenti nel libretto non fossero mai stati posti in musica. Colpo di scena quando, dieci anni dopo, il quintetto ha fatto capolino nella biblioteca del Conservatorio di Palermo, in compagnia di altri preziosi autografi operistici ottocenteschi Altro colpo di scena: come si era già ipotizzato, il brano riprende o anticipa materiali musicali omologhi dalla Scala di seta, dal Barbiere di Siviglia e dalla Cenerentola, ma con un’originalità che trascende di gran lunga la logica del mero autoimprestito. Ricollocata al suo posto la perla dispersa, è così iniziata una nuova vita esecutiva per la deliziosa e centonica opera buffa di Napoli 1816, subito rappresentata intera a Liegi e Bad Wildbad.
Un’attesa speciale spetta però al battesimo pesarese: quattro recite dall’11 al 20 agosto, nel Teatro Rossini, come secondo titolo nel cartellone del ROF; e uno spettacolo di eccellente fattura dopo le mezze delusioni della Gazza ladra inaugurale. A voler essere maligni, anzi, parrebbe che nell’allitterante coppia di spettacoli la Gazzetta venga a espiare con l’esempio le cadute della Gazza ladra, a partire dalla realizzazione teatrale. Il merito è del regista Marco Carniti, della scenografa Manuela Gasperoni e della costumista Maria Filippi, oltre che di una compagnia di canto (e gesto) coinvolta ed entusiasta ben oltre lo standard.
Il lavoro con gli attori è capillare. Lo si vede nel Don Pomponio di Nicola Alaimo, baritono degno del protagonista nel Guillaume Tell e dell’Ezio nell’Attila, qui riconvertito nel più comico dei bassi buffi, con quel pozzo di voce messo al servizio di un’esuberanza scenica cialtrona e manesca, con quel disinvolto vernacolo partenopeo e con quella complicità irresistibile che lo accoppia al mimo Ernesto Lama nella parte del servo Tommasino (assai rivalutata, e giustamente: si tratta di un vero personaggio, non di una comparsa). Il lavoro si vede anche nell’Alberto di Maxim Mironov, efebico tenore in corso di vertiginosa maturazione, capace ora non solo di modulare soavemente, sgranare semicrome e attingere sopracuti, ma anche di recitare con ironia briccona e stare al gioco beffardo: quando gli tocca di leggere, parlando, l’annuncio sulla gazzetta, qualcuno lo sfida con un «leggi tu, che sei russo»; ed egli legge con vivacità e fonetica da madrelingua italiano, sotterrando l’arruffata prova di Nino Machaidze nella lettura del mandato d’arresto della Gazza ladra. Un concentrato di mezzi vocali floridi e arguta intelligenza attoriale è a sua volta il baritono Vito Priante: in uno spettacolo essenziale all’estremo, dove la scena è riempita innanzitutto dal corpo e dall’agire dei cantanti, proprio egli è peraltro al centro dell’isolata, esotica, pomposa scena di travestimento nel Finale I.
Accanto a tre prime parti maschili risolte nel migliore dei modi, le tre femminili si prestano a distinzioni un poco più puntigliose. Il soprano Hasmik Torosyan ha frequentato l’Accademia Rossiniana di Alberto Zedda, lo scorso anno, ed è subito stata promossa al ruolo della primadonna Lisetta; spigliata e piccante, solida nel canto, finisce al margine della compagnia per il puro fatto d’essere l’unica non italiana o non naturalizzata: lo si avverte in qualche asperità d’emissione, nel porgere più studiato che naturale e nella fonetica fredda, rigida, impensierita. Per contro, il mezzosoprano Raffaella Lupinacci diverte e commuove con fremente spontaneità, in barba al più contegnoso personaggio di Doralice: una seconda donna pronta a tenere da sola la scena. Lussuoso è a sua volta il caratterismo di Josè Maria Lo Monaco, per una Madama La Rose enigmatica come un’acqua cheta. Comprimariato di rango superiore, per pregio di risorse vocali e abilità di recitazione, nell’Anselmo di Dario Shikmiri e nel Monsù Traversen di Andrea Vincenzo Bonsignore. Misurata ma incisiva, colorita ma elegante è infine la concertazione di Enrique Mazzola alla testa di Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna. Lunghi applausi ritmati salutano lo spettacolo più sorprendente e festeggiato del ROF 2015.