A Pesaro torna il premiato ma viepiù debole spettacolo di Michieletto: sotto la solida direzione di Renzetti spiccano le voci italiane di Esposito, Alberghini e Iervolino
di Francesco Lora
OGNI RITORNO DELLA GAZZA LADRA nel cartellone del Rossini Opera Festival è un’occasione di festa, giacché il suo autore non sbagliava a indicarla come una tra le sue partiture più belle, e poiché in essa si rinnova un vertice del teatro musicale e nel contempo si misura il valore della rassegna operistica pesarese. Così, a tradire le recenti quattro recite nell’Adriatic Arena (10-19 agosto) non sono di certo i limiti testuali, bensì il ripreso allestimento con regìa di Damiano Michieletto, scene di Paolo Fantin e costumi di Carla Teti, lì varato nel 2007 in mezzo a cori battenti di osanna e fischi, vincitore di un Abbiati tra i più controversi nella storia del premio, e portato da allora a oggi anche a Bologna, Helsinki e Verona. Mende vecchie e nuove, ora astratte ora concrete.
Concreta è la trasandatezza nel lavoro del regista con gli attori, dove all’uno è forse chiaro l’obiettivo da raggiungere senza che gli altri siano istruiti su come perseguirlo e rinsensarlo; e l’eccezione conferma la regola: se un cantante come Alex Esposito fa faville nel gesto e nel porgere la parola, ciò è dovuto alla sua iniziativa e abilità personale, mentre intorno a lui gli altri si arrabattano come possono in semideserta scena. Altrettanto concreta è l’inopportunità di riprendere lo spettacolo in un teatro frattanto riprogettato per intero: da nessun posto dell’unica e poco degradante platea è ora possibile vedere l’acqua che allaga tutto l’Atto II e che con flebile metafora vorrebbe significare l’ammollo dei personaggi nelle loro peripezie.
Con interesse si ascolta il giovane e pluripremiato tenore René Barbera, al suo debutto pesarese nella parte dell’amoroso Giannetto
In coda, ecco la critica dell’astratto e un esempio fra i molti. Tutto intento a cercare l’applauso del neofita, il quale gode più delle tinte forti che dell’analisi fine, Michieletto banalizza e persin deride gli alti spunti morali del soggetto. Come quando il disertore Fernando irrompe durante il processo alla figlia Ninetta: nel libretto egli si presenta inerme e allo zenit della propria dignità paterna, deciso a consegnarsi alla giustizia in cambio della vita di un’innocente; nell’Adriatic Arena, invece, egli entra fuori di sé e pistola alla mano, strattonando la figlia in ostaggio, minacciando i presenti e significando non altro che il disinteresse etico e l’astensione teatrale. Fatta la lunga premessa intorno a ciò che si vede, non sempre ciò che si ascolta procura l’attesa redenzione.
Vetrosa nel registro centrale, roca in quello grave e stridula in quello acuto, Nino Machaidze è infatti soprano poco adeguato alla parte di Ninetta, cui viene a mancare non solo la proprietà del canto ma anche la necessaria aura virginale, soave e innocente; il personaggio, modello di virtù che nel finale attinge un eroismo da regina, è ridimensionato a carattere piccato, sgarbato, monocromo e capriccioso, in sé incompatibile con la varietà retorica di una primadonna rossiniana. Fredda e timida nella musica, nella parola e nell’azione è a sua volta Lena Belkina, laddove il ruolo dell’adolescente Pippo richiederebbe estro, calore e affetto. Paradosso: un Pippo ideale avrebbe potuto essere Teresa Iervolino, lo sfarzoso contralto che qui interpreta Lucia con dovizia di sfumature.
Con interesse si ascolta il giovane e pluripremiato tenore René Barbera, al suo debutto pesarese nella parte dell’amoroso Giannetto: la caratterizzazione è generica, l’espressione di maniera, il portamento non privo d’impaccio, l’ornamentazione sgranata alla buona; eppure l’interprete ha dalla sua la simpatia del timbro e la cordialità dei modi, oltre che un registro acuto e sopracuto di ragguardevole facilità e squillo (molti e saldi i Re4). La gemma della compagnia di canto sta nel citato Esposito: il suo Fernando è la singolare e virtuosistica sintesi di una recitazione pressoché cinematografica per dinamico realismo e di un canto sempre forbito e rotondo, paterno nella sua declinazione più semplice e schietta.
Anche l’altro primo basso vanta pregi non comuni nell’ancor più cospicua parte del Podestà: ma il giovanissimo Marko Mimica, a fronte di smalto lustro, ampia risonanza e giusti modi torvi, difetta di scioltezza nella vocalizzazione e potrebbe trovare terreno più conveniente lontano da Rossini. Brillante, versatile e disposto a scendere a parti minori per farne benvenuti cammei è Simone Alberghini come Fabrizio. Regolatore del discorso musicale, sul podio sta infine il veterano Donato Renzetti, alla testa di Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna: sotto la sua direzione il dettaglio prezioso può sfuggire, l’insieme talvolta sfasarsi e la filologia andare negletta; ma tutto suona vivo, fermo e deciso, con senso ritmico degno di rara lode in questo titolo monumentale e insidioso.