Nella chiesa di San Marco il rito dell’esecuzione della pagina verdiana, Coro e Orchestra del Teatro alla Scala
di Luca Chierici
IL rito dell’esecuzione del Requiem verdiano in San Marco si è ripetuto ancora una volta l’altra sera nella chiesa dove il magistrale capolavoro aveva visto la luce nel lontano 22 Maggio del 1874 e dove diverse volte lo abbiamo ascoltato in esecuzioni indimenticabili, soprattutto quando ad accendere le più segrete emozioni era Claudio Abbado, che tra San Marco e la Scala si circondava di cantanti grandissimi, come Mirella Freni che intonava un Libera me vibrante, disperato, commosso, o Pavarotti che rendeva il senso della semplicità di un canto da chiesa quando intonava l’Ingemisco. Erano anche tempi in cui, purtroppo, le motivazioni di una esecuzione del Requiem, al di là della calendarizzazione ufficiale, erano spesso terribili, e andavano di pari passo con i risultati di una strategìa della tensione che mieteva tante vittime. Il 14 settembre del 1985 fu sempre Abbado a riproporre il Requiem alla Scala in memoria di Carlo Alberto Dalla Chiesa e della moglie assassinati con la scorta tre anni prima.
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L’evento musicale è relativo: Zubin Mehta, che del Requiem non è stato a dire il vero mai un interprete elettivo, benché lo conosca a memoria e lo abbia affrontato molte volte, ci è apparso stanco e spesso carente di emozioni
L’esecuzione in San Marco del 15 maggio 1973 diretta da Abbado con la Ricciarelli, la Cossotto, Tagliavini e Ghiaurov – presente l’allora presidente Giovanni Leone – fu, se non ricordiamo male, la prima in tempi moderni dopo quella storica di quasi cent’anni addietro e venne accompagnata da polemiche fastidiose che ricordavano quelle che avevano accompagnato l’organizzazione dell’evento originale, scaturite dalle divergenze tra rito romano e rito ambrosiano e dalla presenza in chiesa di cantanti di sesso femminile. Abbado ritornò in San Marco con il Requiem ancora nel gennaio del 1978 (Freni, Pavarotti, Obraztsova e Ghiaurov) e nel settembre del 1985 con la Caballé, la Valentini, Dvorsky e Ramey. Poi il clima iniziò a mutare con il passaggio di consegne tra Abbado e Muti. Quest’ultimo rinnovò peraltro la consuetudine già sperimentata con successo e propose nuovamente il Requiem un paio di volte nella chiesa milanese.
Nulla del clima di quegli anni si ripropone oggi, quando le stragi forse ci toccano molto meno da vicino e non sembra davvero di vivere un momento di austerity visto il numero di giovani che affollano i wine bar vicini alla chiesa. L’evento musicale è relativo: Zubin Mehta, che del Requiem non è stato a dire il vero mai un interprete elettivo, benché lo conosca a memoria e lo abbia affrontato molte volte, ci è apparso stanco e spesso carente di emozioni, come se dirigesse un’opera troppe volte incontrata sul suo cammino senza rinnovarne le verità o senza scoprirne altri segreti. Se si vuole ascoltare oggi un Requiem verdiano capace ancora di stupirci dobbiamo rivolgerci a Eschenbach, persino a un Thielemann che è sempre piuttosto parco di sentimenti. Nel quartetto vocale spicca la Rachvelishvili, timbro fascinoso e notevole personalità.
Anch’essa è però come ingessata, quasi volesse temere di far trasparire emozione alcuna. La Agresta, che abbiamo ascoltata altre volte nel ruolo, è per certi versi ammirevole, ma non sempre risulta credibile e non ha dalla sua il fascino timbrico della collega. Il giovane Giorgio Berrugi è in possesso di notevole musicalità, bel garbo nel porgere la voce e pur non potendo contare su una vastissima esperienza si difende egregiamente. Colombara si è riscattato dopo un inizio problematico di un Mors stupebit fuori tempo, ripreso dallo sguardo arcigno di Mehta. L’orchestra – zippata in spazi angusti – e ancora di più il coro istruito da Casoni hanno avuto la meglio, tanto il Requiem è, come si dice, nel loro DNA.
Pubblico a volte molesto nel fare sfoggio di nuove suonerie del cellulare, nello scattare foto e, molto peggio, nell’improvvisare attività da cineasta, allo scopo di riascoltare videoclip di bassa qualità sonora. Non fa nulla se per raggiungere lo scopo alzano le braccia in maniera molto visibile e ti oscurano la visuale. A nulla valgono le troppo timide avances delle maschere: una volta, se ti beccavano anche solo a registrare, seguiva ramanzina del capo sala e cancellazione del nastro con tanto di aggeggio magnetico. Oggi si usa una timida pacca sulla spalla, del tutto inutile perché l’invadente spettatore fa finta di nulla e continua imperterrito nella sua poco discreta occupazione.
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