di Attilio Piovano foto © Musacchio&Iannello
UN DIRETTORE D’ORCHESTRA DELLA CARATURA di Antonio Pappano (con solidi studi pianistici e una protratta prima parte di carriera dedita all’accompagnamento di solisti e cantanti) che torna a ‘mettersi in gioco’ e siede alla tastiera. Per suonare in duo con un clarinettista di lusso quale Alessandro Carbonare, dal suono traslucido e dalle ricchissime sfumature timbriche; somma eleganza, fraseggi di rara bellezza, un affiatamento a dir poco perfetto. Ed è un piacere seguirli nota dopo nota, ogni frase distillata con cura incredibile: mercoledì 28 ottobre 2015, a Torino, Auditorium ‘Toscanini’ della Rai dall’acustica non del tutto congeniale alla musica da camera, dove i due big hanno suonato per l’Unione Musicale (stante la chiusura del Conservatorio per verifiche strutturali, dove la loro performance avrebbe potuto giovarsi di un ambiente perfetto).
Un programma tutto giocato su una certa malinconia autunnale
Programma coerente e davvero di gran classe con Schumann e Brahms accostati l’uno all’altro, e si sa quanto la musica dei due riveli affinità elettive (e pur enormi divergenze). In ambito cameristico, a conti fatti, però sono più le affinità. E allora bene aver iniziato la serata con i Phantasiestücke op. 73 di Schumann (1849) dalle dense armonie, con quell’inizio rarefatto e umbratile (il primo), molto ‘brahmsiano’, poi il secondo più screziato, ma ugualmente giocato sulle mezze tinte e sulle luci soffuse; infine il terzo più smaccatamente animato, dove però a prevalere tra le pieghe del discorso è quell’intimismo Biedermeier che di Schumann sul versante da camera è una vera cifra. A seguire la seconda delle sublimi Sonate op. 120 che Brahms compose nel 1894 sollecitato dal virtuoso Mühlfeld che gli aveva svelato le potenzialità del clarinetto e ne è emersa una vera lezione di stile: sobrietà, eleganza e molta espressività, tenerezza, dolcezza e capacità di introspezione, insomma tutto quello che occorre pere rendere al meglio la poesia di questo capolavoro ‘autunnale’ dall’enorme levigatezza. In chiusura di serata Pappano e Carbonare, molto opportunamente, hanno collocato invece la prima delle due Sonate op. 120, senz’altro più esuberante e appassionata, ma non priva di quelle striature melanconiche (il toccante tempo lento) che ne garantiscono la fortuna, accanto a passaggi più estroversi (come l’Allegretto grazioso e il Vivace). Quelle striature che predominano altresì nelle schumanniane Tre Romanze op. 94, fatte precedere al Brahms finale. Dove ancora Carbonare ha sfoggiato un controllo del suono assoluto, assecondato dalle mani esperte di Pappano, dalla tecnica infallibile e dal bel tocco.
Consci di un programma così concentrato e impegnativo, tutto giocato su una certa ‘malinconia autunnale’, per l’appunto, hanno poi offerto due bis annunciandoli con humour: Pappano ha affermato infatti «…per cambiare…», e allora un primo pezzo jazzistico, ma ancora rarefatto, poi («…per cambiare ancora di più…», dice Carbonare) le seduzioni orientali e vistosamente Klezmer di un pezzo di bravura dall’inizio assorto in cui il virtuoso si è lasciato andare a sforzati e suoni frullati, con impervi giochi di armonici, velocità forsennata e altro ancora. Indimenticabile.