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Al Teatro Regio la grande orchestra italiana accomuna Beethoven e Verdi in letture di peculiare esattezza, misura e cantabilità
UNA SINFONIA IMMAGINARIA fatta con sinfonie d’opera verdiane. A patto di rimanere nell’àmbito del gioco, se ne potrebbe immaginare una con, nelle posizioni e nei ruoli canonici dei quattro movimenti, la Sinfonia dell’Aida (sic), il Preludio dei Masnadieri, il Ballo del Macbeth e la Sinfonia della Forza del destino.
Senza giocare e senza pretendere, al Teatro Regio di Parma, il 18 ottobre e per il Festival Verdi, una sinfonia di sinfonie non molto differente è stata di fatto assemblata nel concerto di Antonio Pappano alla testa dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia: in rapida sequenza e senza che gli applausi interrompessero la tensione dell’unica arcata, la prima parte del programma era formata dalle Sinfonie della Luisa Miller e della Forza del destino, dal Preludio dei Masnadieri e dalla Sinfonia dell’Aida. Applausi, anzi ovazioni.
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Quella di Santa Cecilia è l’orchestra italiana oggi più tecnicamente agguerrita e più assiduamente attiva a Roma, in Italia e all’estero. Vanta prime parti da apoteosi, segnatamente in legni e ottoni: a Parma, il flauto di Andrea Oliva, l’oboe di Francesco Di Rosa, il clarinetto di Alessandro Carbonare, tutti prodighi di levigature, involi e ripiegamenti da togliere il respiro; ciò, senza voler dimenticare il violoncello di Gabriele Geminiani, che nel Preludio dei Masnadieri s’impone per nobiltà di eloquio e pudica brillantezza. L’insieme ha virtuosismo e muscolatura pari alle massime orchestre di area mitteleuropea, ma ha nel suo corredo anche e soprattutto una penetrabilità lirica e una cantabilità innata che potrebbero venire unicamente dalla scuola italiana e dalla sua tradizione perlopiù operistica. Vertice tecnico, dunque, nonché il pregio ancor più raro dell’essere inconfondibile. Nessun’altra orchestra italiana gode poi di un più luminoso rapporto con il proprio direttore musicale: a vederli lavorare, pare sempre che stiano rinnovando la loro scelta reciproca in ogni stagione, concerto, brano e inflessione.
A Parma, in Verdi e con Santa Cecilia, le nude mani di Pappano suscitano la materia sonora e la tagliano, affilano, sferzano, rubano, illuminano, benedicono. La duttilità del canto a ogni costo si impone sull’impeto ritmico altrove ascoltato maggiore. L’evocazione esotica nei timbri della Sinfonia dell’Aida – quella che l’autore compose per il debutto alla Scala ma poi accantonò lasciando il Preludio al proprio posto – sale presto da sé al più pregnante piano della narrazione. Un Verdi di rara schiettezza e nessun effettismo, che nella messa a nudo del testo geniale protesta le virtù sottovalutate dello strumentatore e del contrappuntista. Il più acuto Verdi che si possa ascoltare a Parma. E a un Verdi così calibrato sembra porgere omaggio la Sinfonia n. 7 di Beethoven eseguita in seconda parte di serata: cordiale garbo padano nel porgere, timbri che paiono assorbire luce anziché emanarla, palpito ritmico senza furore danzante ma fatto ora pensoso ora nervoso. Il rigore e la misura dei grandi.
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