Ovazioni per la direzione di Nicola Luisotti, cast vocale di alto profilo, svetta Leo Nucci
di Luca Chierici
LA RIPRESA DI RIGOLETTO ALLA SCALA nel collaudato allestimento inaugurato nel 1994 con la debole regìa di Gilbert Deflo, le sontuose scene di Ezio Frigerio e i variopinti costumi di Franca Squarciapino ha avuto luogo mercoledì scorso con un successo di pubblico straordinario, molto superiore alle aspettative. Si era preparati ad accogliere con rispetto e riconoscenza la presenza del veterano Leo Nucci, che non solo si è rivelato del tutto all’altezza della situazione ma ha regalato al pubblico una performance ancora migliore di quanto ci si potesse attendere, con una solidità vocale, una verità di accenti, una partecipazione totale che contraddicono vistosamente l’età anagrafica del baritono. Accanto a lui era ancora Vittorio Grigòlo, al quale si perdonano i soliti eccessi plateali e una certa tendenza ad accentare il canto – soprattutto nel suo ingresso dell’atto primo – con emissioni nel registro acuto la cui indeterminatezza risulta un poco fastidiosa.
[restrict paid=true]
Quando il tenore si esprime con intimo sentimento (si pensi ad esempio al «Parmi veder le lacrime» o a «È il sol dell’anima»), lì raggiunge veramente risultati encomiabili che ci fanno dimenticare altri momenti di eccessiva esuberanza. Molto applaudito al termine dei momenti chiave riservati al Duca nel capolavoro verdiano, a Grigòlo il pubblico ha riservato franche approvazioni, che però non hanno eguagliato in livello quelle attribuite sia a Nucci che all’altra cantante attesissima al suo debutto scaligero. Nadine Sierra, quale Gilda, ha superato l’esame a pieni voti e ha dimostrato con intelligenza e bravura quanto il suo ruolo possa essere definito secondo parametri assai lontani da quelli seguiti dalle soprano leggere che molto spesso, soprattutto in passato, concentravano la propria attenzione sull’aspetto prettamente vocale indotto da una tessitura acuta, dai passaggi di agilità. A scapito di una analisi più profonda del personaggio che, come ha dimostrato la Sierra, è di gran lunga più complesso di quello riportato dalla tradizione. Una Gilda che vive le proprie passioni ma partecipa anche con commozione al dramma paterno e non esita a immolarsi per soddisfare l’ego smisurato dell’amato Duca. Una Gilda che non muta le proprie caratteristiche vocali con l’avanzare dell’azione ma tutto sommato resta fedele fin dall’inizio a una impostazione non virtuosistica del ruolo, evocando addirittura accenti donizettiani in «Caro nome».
Non ci attendevamo da un buon professionista come Nicola Luisotti un risultato così convincente come quello che ha dimostrato di raggiungere in questo Rigoletto. Tempi moderati quando è necessario, ma anche le giuste impennate, insomma quel gioco di tensioni e distensioni che animano la musica in genere, e in particolare quella verdiana in questa somma partitura. Luisotti non solo si è rivelato un partner ideale per i cantanti, ma anche rivissuto i lati migliori di una lunga tradizione e ha sottolineato con intelligenza alcuni interventi strumentali assai interessanti (uno per tutti il ruolo dell’oboe nell’introduzione di «Tutte le feste al tempio»).
La tradizione, questa brutta parola che troppo spesso è stata evocata negli ultimi quarant’anni in senso negativo condizionando non poco le esecuzioni verdiane (e non solo quelle) in teatro! Al di là di tutto ciò che è stato detto e scritto da Toscanini in poi, non si capisce perché non vi sia nulla di male al termine di un concerto nel concedere un bis, nel ripetere un movimento di un quartetto d’archi, un frammento di una sonata per pianoforte e invece si debba gridare allo scandalo se viene concessa all’applauso del pubblico la ripetizione di una cabaletta. D’accordo non esagerare – l’esecuzione di un’opera risulterebbe davvero troppo frammentata e si perderebbe il giusto senso delle proporzioni interrompendo il fluire naturale della musica e dell’azione – ma che male c’è, come è avvenuto in questo Rigoletto, nel bissare la cabaletta che conclude festosamente l’atto secondo? Non era sufficiente l’entusiasmo del pubblico (ben pagante, ma questo è un altro discorso) per innescare l’incrocio di occhiate di approvazione tra Nucci, Luisotti e il sovrintendente Pereira che dal suo palco seguiva con entusiasmo la serata e a volte pareva fisicamente protendersi verso la scena? Si è scritto qui molte volte che oggi va troppo di moda il fenomeno delle standing ovations, ma ergersi a castigatori dei costumi è all’opposto un atteggiamento che non ha senso alcuno.
Sta di fatto che il clima generale della serata ha risentito, dal bis in avanti, dell’entusiasmo che si propagava in sala e che ha accompagnato fino al termine questa recita per molti versi memorabile. Forse era dall’800 che il «Sì vendetta» non veniva concesso come encore, chi può dirlo con certezza, ma tutto sommato in teatro è meglio un pizzico di partecipazione in più che il soporifero e prevedibile consenso di un pubblico convenzionale e distratto.
[/restrict]