di Luca Chierici
Di percezione del suono in una sala sostanzialmente “sorda” come è quella del Teatro alla Scala si discuteva a proposito del concerto schumanniano diretto da Chailly con la partecipazione del pianista Radu Lupu. Un appuntamento che, visto in quest’ottica, si prestava ad alcune considerazioni relative non solo all’esito della serata ma soprattutto agli estremi opposti che caratterizzavano la percezione sonora dell’insieme, con una Seconda sinfonia squillante nella ri-orchestrazione di Mahler affiancata al Concerto in la minore appena sussurrato da Radu Lupu. Da una parte il progetto di eseguire le sinfonie di Schumann nella versione “corretta” di Mahler, con tutti i problemi che questa scelta si tira dietro: d’accordo, la revisione di Mahler è storicamente giustificabile, ma tutto sommato nulla aggiunge (anzi) a quello che è il messaggio originale.
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Di più, si è del parere che nel caso di molte composizioni schumanniane, per pianoforte o altri ensemble, sarebbe opportuno presentare al pubblico di volta in volta le varie versioni affiancate una all’altra, talmente interessanti sono le modifiche e i rimaneggiamenti anche vistosi che l’Autore mise a punto con il trascorrere del tempo. Il discorso non vale per la Seconda sinfonia ma vale per la Quarta, così come per tanti altri capolavori come la Fantasia op.17 o gli Studi sinfonici.
A bilanciare le sonorità “rinforzate” da Mahler era appunto l’esecuzione del Concerto in la minore con Radu Lupu. Il grandissimo pianista vive oramai da molti anni periodi di disagio fisico durante i quali le forze sembrano venirgli meno, e la scelta dell’op.54 non ci è parsa la migliore in un momento in cui il suono di Lupu risultava appena percepibile, complice anche l’acustica del Teatro e l’accompagnamento di Chailly. Il quale ultimo, anche a causa di un gesto del pianista seguito al primo attacco, ha per fortuna abbassato i toni del discorso per cercare di affiancare al meglio il solista.
Il volume di suono di Lupu non è paragonabile oggi a quello che esce dalle mani della sempre giovanissima Argerich (che Dio ce la conservi!) che sarà tra pochi giorni partner di Chailly e dell’Orchestra in Ravel; inoltre il Concerto di Schumann esige un dialogo assolutamente paritario tra solista e orchestra, ovviamente anche sul piano dell’intensità di suono. Solamente Claudio Abbado era riuscito ad accompagnare un Lupu “ultima maniera” in modo ideale – si trattava del K 491 di Mozart eseguito a Reggio Emilia una decina d’anni fa – ma quello era il caso di un testo nel quale solista e orchestra vivono spesso un dialogo su piani contrapposti. Per ciò che riguarda la pura tenuta pianistica, Lupu è stato a volte piuttosto falloso; d’altro canto la qualità del microfraseggio (è stata sufficiente l’esposizione del primo tema) compensava ampiamente le perdite di controllo in certi passaggi relativamente impegnativi.
La serata è stata aperta dall’Ouverture per il Manfred, luogo schumanniano bellissimo che Chailly ha saputo rendere con vibrata partecipazione e totale controllo del mezzo sonoro. A quando alla Scala il revival delle musiche di scena, che ricordiamo in una bella serata del lontano ottobre 1980 con gli interventi di Carmelo Bene e Lydia Mancinelli, direttore Renzetti?
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