di Ruben Vernazza
Se si volesse paragonarli ad un dolce, i Berliner Philharmoniker potrebbero essere una Saint-Honoré: un classico con una storia gloriosa e una fama inscalfibile, dal gusto talmente celebre e celebrato che si ha l’impressione di conoscerlo a menadito, ma che invece ad ogni assaggio torna a stupire per maestosità, eleganza, raffinatezza. Venerdì 2 luglio la compagine tedesca è approdata a Parma, nell’ambito della rassegna concertistica del Teatro Regio ParmaEstate, seconda e ultima tappa italiana (la prima è stata Firenze) di una lunga tournée internazionale.
Sede del concerto il cortile del Palazzo della Pilotta: una cornice architettonica di grande suggestione, intima nonostante l’ampiezza, ma difettosa dal punto di vista della resa acustica. Quando si ha l’occasione di ascoltare dei fuoriclasse come i Berliner è un peccato non godere di condizioni ambientali ottimali; ma, d’altro canto, gli spazi di un’arena all’aperto permettono di ospitare una grande quantità di pubblico, e di conseguenza i benefici al botteghino sono ovvi.
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L’occasione era ghiotta non solo per ascoltare una delle più importanti orchestre al mondo, ma anche per vedere all’opera Yannick Nézet-Séguin, acclamata bacchetta canadese fresca di nomina alla direzione musicale del Metropolitan Opera House di New York. Gesto ampio, energico e perentorio, Nézet-Séguin ha offerto letture classiche ma mai routinarie di un programma tutto dedicato a due giganti della musica boema ottocentesca: Bedřik Smetana e Antonín Dvořák.
Ad aprire il concerto Vltava (La Moldava), celeberrimo poema sinfonico creato nel 1874 da uno Smetana cinquantenne in piena temperie nazionalista. Di questa composizione, nel corso degli anni, si è fatto un tale uso (e abuso) che è sempre fortissimo il rischio di scadere in letture edulcorate o, all’opposto, di ostentata eccentricità; i Berliner superano invece l’ostacolo in modo magistrale. Le capricciose arcate melodiche si dipanano leggerissime, e la cura delle dinamiche mette in evidenza il gioco di pieni e vuoti della lussuosa orchestrazione. Di un anno successiva è la Serenata per archi in mi maggiore di Dvořák, pagina che ha consentito di apprezzare l’irreprensibile perizia tecnica e l’approccio cameristico delle sezioni d’archi dei Berliner. Tanto nella concitazione dello Scherzo quanto nella dolcezza lirica del Valzer risaltano lo straordinario affiatamento e l’attitudine al reciproco ascolto di strumentisti formidabili, che potrebbero suonare splendidamente anche senza la guida del direttore d’orchestra.
Ma il direttore c’è, e non rinuncia a imporre la sua personale impronta stilistica, caratterizzata ancora da elegantissima levità e da sbalzi dinamici netti, ma mai estremi. A chiudere il programma ancora Dvořák, con una pagina di rara esecuzione come la Sinfonia n° 6 in re maggiore: la lettura di Nézet-Séguin fa risaltare l’ascendenza teutonica delle strutture, senza comunque rinunciare a curare i colori cangianti orchestrali. Anche qui gli strumentisti rispondono a meraviglia: in particolare, nel terzo movimento spiccano per lucidità e nettezza di suono i legni e gli ottoni, che assieme agli archi giocano a rimpiattino con il brioso tema di matrice popolare.
Per ricompensare gli scroscianti applausi di un pubblico entusiasta, i Berliner hanno offerto un graditissimo fuori programma, ancora boemo: la Danza Slava n. 8 di Dvořák. Con la sua irruenza ritmica, questa pagina ha suggellato come meglio non si poteva un concerto che, se non si temesse di cascare nell’enfatico, potrebbe essere qualificato come memorabile.
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