di Luca Chierici
CONSERVARE IL PASSATO significa, nello specifico teatrale, anche riproporre a distanza di anni spettacoli che hanno avuto un particolare impatto sul gusto dell’epoca, che hanno riscosso un successo di pubblico e di critica decisamente lusinghiero. Non è sempre facile riprodurre integralmente un allestimento in tutte le sue componenti: per la regia è fondamentale attingere a note esplicative quanto più possibile precise stilate dagli autori o da loro collaboratori stretti; per le scene e i costumi è meglio avere a disposizione gli apparati originali, pena la ricostruzione degli stessi ex-novo. Se la produzione attiene al teatro d’opera interviene anche il fattore legato alle voci originali che possono avere contribuito al successo primitivo: ecco che il ricordo di voci famose che hanno caratterizzato lo spettacolo venti o trenta anni fa rischia di eclissare l’intervento, ovviamente necessario, di nuovi protagonisti.
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Esiste in questo caso una differenza non da poco tra allestimento ripreso continuativamente nel tempo (si pensi alla Bohéme di Zeffirelli alla Scala, per la quale al messaggio originale si sovrappongono di volta in volta piccoli cambiamenti dovuti a necessità contingenti) e spettacolo riproposto a partire dalle radici. «È una operazione quest’ultima – ci asssicura Serge Dorny, Direttore dell’Opera di Lione – che ha un costo paragonabile a quello di una nuova produzione; anzi a volte il costo può essere addirittura maggiore perché implica operazioni di ricerca preventiva non facili da mettere in campo».
Per il “Festival Mémoires” che fa parte del cartellone di quest’anno, Dorny ha scelto di rischiare in proprio e non poco, realizzando un progetto che egli aveva già tentato senza successo di mettere in campo durante il suo sfortunatamente breve periodo di management a Dresda, ripescando tre allestimenti che hanno fatto storia e che sono lì a testimonianza di una curiosità culturale e di una intraprendenza che nel passato più o meno recente hanno contraddistinto la gestione di alcuni teatri, soprattutto nella ex Germania dell’Est. «Geograficamente la scelta è caduta in quel contesto – continua Dorny – sia per ragioni di importanza storica che per il fatto che certa tradizione francese, imperniata massimamente sul nome di Chéreau, è già molto nota e non soltanto agli addetti ai lavori».
Sono state quindi inseriti nella stagione 2016-2017 di Lione tre allestimenti notevoli, ai quali si poteva accedere comodamente nel corso di tre serate successive a partire dalla fine di Marzo. Si trattava innanzitutto dell’Elektra straussiana, messa in scena da Ruth Berghaus nel 1986 a Dresda e lì rimasta in cartellone per 33 anni. La Berghaus (1927 – 1996), famosa per la sua attività a fianco di Brecht e per avere diretto il Berliner Ensemble fino al 1977, era considerata unanimemente l’esponente più in vista del cosiddetto Regietheater e proprio questa produzione le procurò una fama notevolissima. Seguiva il Tristan und Isolde di Heiner Müller, messo in scena dal 1993 al 1999 a Bayreuth, e infine L’Incoronazione di Poppea, curata più recentemente da Klaus Michaël Grüber al Festival di Aix nel 2000.
Il lavoro di concertazione e direzione d’orchestra è stato affidato, nel caso di Strauss e Wagner a Hartmut Haenchen, artista di grande sensibilità ed esperienza (ha diretto tra le altre cose l’integrale delle opere wagneriane, ripetendo per ben 36 volte l’intero Ring) con una notevolissima carriera alle spalle, nonché protagonista sul podio della prima rappresentazione di questa Elektra di Dresda di trentuno anni fa. Parlare con Haenchen significa anche ripercorrere la storia degli allestimenti wagneriani degli ultimi quarant’anni e soffermarsi su problemi di fedeltà testuale non indifferenti: numerosissimi sono infatti i cambiamenti che lo stesso Wagner apportava alle proprie partiture nel corso delle varie rappresentazioni e ad oggi non esiste un’edizione critica di riferimento che riporti le centinaia di annotazioni originali di mano del compositore.
Haenchen scava nei ricordi e lavora sui propri appunti, frutto di una vita di esperienze, guidando una compagnia di canto che si è felicemente piegata alle sue intenzioni, anche se Daniel Kirch non è sembrato il Tristan ideale in questa produzione assai statica di un’opera che già mette a dura prova lo spettatore per la sua estensione. Molto più convincente è stata la Isolde di Ann Petersen e di notevole spessore il Marke di Christof Fischesser. Nelle intenzioni del regista questa messa in scena, nella quale l’aspetto visivo venne curato da Erich Wonder con l’ausilio delle luci di Manfred Voss – sottolineava l’incomunicabilità tra Tristan e Isolde nel primo atto – ossia nella fase precedente l’assunzione del famoso filtro d’amore – mentre faceva riferimento all’estraneità tra Isolde e re Marke nel secondo e allo stato di abbandono totale che contraddistingue l’agonia di Tristan nel terzo atto, che si conclude con la famosissima Liebestod di Isotta. Una regìa che aggiungeva quindi motivi di depressione e lutto al carattere di un lavoro già assai meditativo e fondamentalmente pessimistico.
Delle tre produzioni vissute nuovamente a Lione, diciamo subito che la più impressionante è stata però quella di Elektra, per un insieme di motivi che tengono conto anche di un elemento attuale, ossia della rinnovata presenza di Haenchen e di una compagnia di canto di notevole valore. Elektra richiedeva oltretutto anche in questo caso la presenza della corposa orchestra straussiana sul palcoscenico, soluzione che era stata dettata nel 1986 dalle limitate misure della buca d’orchestra del teatro di Dresda e che aveva stimolato (invece che limitare) la fantasia della regista, coadiuvata dalle scene di Hans-Dieter Schaal che facevano pensare a una piscina con tanto di trampolino. Si attuava dunque una felice commistione tra esecuzione in forma di concerto ed esecuzione in forma scenica, soluzione che ovviamente può essere scelta una tantum ma che in questo caso portava a un ascolto e a una visione ideale dell’evento. Haenchen ha tratto dalla densa partitura tutte le suggestioni più audaci e di straordinario impatto orchestrale e vocale, coadiuvato da Thomas Piffka (Egisto) e Christof Fischesser (Oreste) e da una Elektra impressionante (Elena Pankratova). Accanto a loro si segnalavano la Crisotemide di Katrin Kapplusch e la Clitennesstra di Lioba Braun. Successo strepitoso, come strepitosa è la conclusione di quest’opera straordinaria.
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