di Luca Chierici foto © Brescia&Amisano
Anna Bolena NON HA PACE sul palcoscenico della Scala, quasi a confermare una sorta di maledizione che grava sull’opera dopo il famoso spettacolo di Visconti che aveva rivelato nel 1957 ancora una volta una Callas al di sopra di ogni aspettativa. Per questa ripresa del titolo si è scelto, in modo piuttosto azzardato, di rivolgersi a un allestimento dell’Opéra National de Bordeaux con la regìa di Marie-Louise Bischofberger, le scene di Eric Wonder, i costumi di Kaspar Glarner e le luci di Bertrand Couderc. Anna ideale sarebbe stata la Netrebko, che ha invece recentemente optato per Traviata (sarebbe stata costei stata in grado di onorare la sua fama in questo specifico caso?), e le sorti del belcanto sono state così affidate a Hibla Gerzmava nel ruolo principale, coadiuvata dalla Seymour di Sonia Ganassi, dal Percy di Piero Pretti e dall’Enrico di Carlo Colombara. A condurre in porto l’operazione dal podio un buon direttore, Ion Marin, che si è rivelato però piuttosto incolore pur salvando quel minimo di correttezza che al giorno d’oggi – dopo che di revival donizettiani ne sono stati proposti a dozzine – chiunque è in grado di assicurare.
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La maggior parte dei cosiddetti “conoscitori” si è scagliata contro l’esito della serata, con qualche buon motivo ma anche con giudizi che spesso contraddicono la realtà dei fatti. Partiamo innanzitutto dalla benedetta questione dei tagli, che affligge buona parte del repertorio belcantistico e che si è riproposta oggi. Fermo restando che la Scala non è un teatro che opera delle scelte che competono storicamente ad altri luoghi o ai festival specializzati, la questione dell’integrità della partitura di Bolena non ci sembra così fondamentale, almeno se paragonata a quella relativa all’insieme canto-direzione-regia-scene sui quali è più opportuno discutere. Tant’è che il successo del 1957-58 e il mezzo o intero fiasco della produzione del 1982 di Anna Bolena non furono certo dovuti a questioni di filologia. Non ci sembra, in conclusione, che il lavoro di forbice effettuato da tutti i direttori di questa, come di altre opere donizettiane, sia così catastrofico per la comprensione del messaggio musicale in un lavoro che diventa capolavoro solamente per altri motivi, non ultimo la presenza di cavatine, cabalette, concertati che assicurano sia una buona continuità musicale sia, soprattutto, l’opportunità per ascoltare tutte le raffinatezze del belcanto.
L’assenza della Netrebko, più che la presenza della Gerzmava, sembra avere disturbato una certa parte di pubblico e di critica che invece di sottolineare le qualità vocali e interpretative di questo soprano russo che ha già alle spalle una buona carriera ha preferito insistere sui difetti, o meglio quelli che si reputano essere tali ma che si possono tranquillamente relegare all’interno di questioni di gusto. Il vibrato può piacere o non piacere, ma non è un peccato mortale, altrimenti la Callas e la Kabaiwanska sarebbero collocabili in qualche girone dell’inferno. Che il belcanto della Gerzmava non raggiunga la fluidità di quello della Netrebko è pur vero, ma è inutile richiedere a una cantante le qualità specifiche che sono tipiche di una collega. Sonia Ganassi e Piero Pretti, avrebbero meritato elogi ben più ampi, mentre si è più che d’accordo nel sottolineare la cattiva prestazione di Colombara (per problemi di intonazione e di emissione nel registro grave) e la scarsa caratterizzazione sia vocale che interpretativa del ruolo di Smeton da parte di Martina Belli.
Il fallimento dell’operazione di recupero dello spettacolo di Bordeaux si è invece rivelato palese per tutti, non tanto per i singoli dettagli (pur esecrabili, come nel caso di un quintetto teniamoci-tutti –per-mano; peccato più lieve i cani in scena, povere bestie sulle quali tutti si sono scagliati) quanto per la debolezza congenita di idee. Regìa e scene non devono confluire in una operazione che utilizza una serie pur ricercata di luoghi comuni adattabili a qualsiasi tipo di repertorio: questo modo di agire fa la differenza tra gran parte degli allestimenti di routine e le poche, vere riletture di tutto un insieme di aspetti insiti nella specifica opera d’arte che si va a rappresentare. L’Anna Bolena di Visconti rappresentava un unicum; la regìa e l’apparato scenico di quella vista l’altra sera potevano essere trasposti tali e quali nel caso di opere completamente diverse da quella donizettiana.
La cronaca della serata ha registrato molti dissensi, soprattutto nei confronti dell’allestimento, al termine della recita. Dissensi che sono stati indirizzati anche nei confronti di Colombara durante la serata e, parzialmente, nei confronti dell’onesto Ion Marin. Si può però concludere che la Scala rappresenti il luogo più pericoloso ove tentare il recupero di titoli che nello stesso teatro hanno vissuto un passato glorioso quanto irripetibile, a meno che questo recupero non possa poggiare sulla presenza di voci davvero eccezionali e su una concertazione che vada al di là della routine indifferenziata. Che all’esito dell’altra sera abbia anche contribuito un atteggiamento di prevenzione e quasi di desiderio di conferma dello scacco del 1982 è ipotesi che non si può a priori scartare. Così come ci si potrebbe chiedere se la stessa disapprovazione di una parte del pubblico avrebbe potuto essere indirizzata nello stesso modo nel caso di una recita tenuta in altri teatri, non necessariamente all’estero. Ma in questo caso va pur detto che la Scala è la Scala e qui i termini di giudizio e paragone viaggiano su standard che non sono certo facili da rispettare.
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