di Ruben Vernazza foto © Guerzoni
Parigi, 1835. Prendi uno dei compositori più reputati del momento (Bellini), commissionagli una partitura per il teatro d’opera italiana di maggior rinomanza al mondo (il Théâtre Italien) e affidagli il miglior quartetto di cantanti che si possa desiderare (la Grisi, Rubini, Tamburini, Lablache). I puritani nasce così. Un’opera al cubo, per qualità compositiva, difficoltà esecutiva e fortuna critica. Un’opera che oggi i direttori artistici programmano con parsimonia: formare una troupe adeguata, infatti, è un compito tutt’altro che semplice.
Dopo aver riesumato con successo La Wally (da noi recensita poche settimane fa), l’agguerrita lega dei teatri lirici di Modena, Reggio Emilia e Piacenza gioca il carico da undici proponendo un allestimento tutto nuovo del capolavoro belliniano. A dimostrazione del fascino inesauribile che quest’opera esercita sugli appassionati, venerdì 16 marzo, serata d’esordio, il Comunale modenese registra il pienone.
[restrict paid=true]
Se I puritani è anzitutto un affare di cantanti, è inevitabile che tutti gli occhi siano puntati sugli emuli di Rubini & Co. – tanto più se, come in questo caso, sulla carta la materia è di valore. Irina Lungu non tradisce le aspettative: superata qualche esitazione iniziale e malgrado una presenza scenica un po’ scialba, il soprano russo fornisce ad Elvira voce omogena e flessibile, facile agli acuti e capace di spaziare agilmente su tutto il ventaglio dinamico. Nella scena della pazzia, in particolare, sfoggia gusto raffinato e fraseggio impeccabile. Ottimo anche il tonante basso Luca Tittoto, che delinea un Giorgio sobrio e autorevole, dalle sfumature appassionate nelle pagine di disteso lirismo. Nei panni di Riccardo, Fabian Veloz è un po’ monocorde ma ha mestiere, bada al sodo e non manca l’appuntamento con le pagine più rilevanti della sua parte (come il duetto “Suoni la tromba”). Chiude il quartetto di voci principali il tenore spagnolo Celso Albelo. Il suo Arturo ha un timbro fresco e rotondo, ispira simpatia per l’interpretazione attoriale ricca di pathos, ma l’intonazione non sempre è perfetta, e la preparazione agli acuti più impervi è spesso brusca. Adeguata l’Enrichetta di Kato Nozomi; onesto il Gualtiero di Lorenzo Malagola Barbieri.
Nel complesso l’amalgama delle voci è buono, ma avrebbe certamente potuto essere migliore se Jordi Bernàcer si fosse attenuto ad una linea interpretativa differente. Il direttore spagnolo prova a lavorare di fino sulla lussuosa partitura di Bellini, per esaltarne i colori, precisarne gli impasti, calibrarne le dinamiche. Il prezzo da pagare a questo approccio, però, è alto: a tratti la quadratura ritmica e la coesione fra orchestra e palcoscenico vanno a farsi benedire, mentre i tempi staccati sono spesso di una lentezza tale da esasperare i cantanti. Se non fosse poi che in una prima rappresentazione alcune sbavature sono perdonabili, per certe insicurezze negli attacchi dei solisti verrebbe da credere che il lavoro di concertazione sia stato un po’ affrettato. L’Orchestra Regionale dell’Emilia Romagna non spicca per brillantezza, e a tratti sembra sospirare «vorrei ma non posso»; il Coro del Municipale preparato da Stefano Colò è invece ordinato e vigoroso.
La messinscena va annoverata fra le note positive dello spettacolo. Addossato ad un’esile impalcatura, un emiciclo di pannelli alti e spogli delimita gli spazi: da esso, a mano a mano che la vicenda si dipana, vengono estratte lunghe pareti – come volumi da una libreria – che definiscono le singole ambientazioni. Create da Rinaldo Rinaldi e Maria Grazia Cervetti, queste essenziali scene fanno il paio con gli eleganti costumi secenteschi e la sobria regia di Francesco Esposito. Tradizione sì, dunque; ma non oleografia.
Piuttosto cauto nel corso dello spettacolo, alla calata del sipario il pubblico tributa applausi generosi, senza comunque risparmiare qualche isolato dissenso al direttore d’orchestra.
[/restrict]