Regìa, direzione e cast di livello per la riscoperta del capolavoro di Catalani nei teatri dell’Emilia
di Ruben Vernazza
Fino agli anni Cinquanta La Wally era un titolo che faceva capolino abbastanza frequentemente nei cartelloni dei teatri lirici italiani; poi il gusto cambiò, e dell’umorale eroina tirolese si persero quasi del tutto le tracce. Complice il ritorno di interesse per le opere composte a cavallo fra Otto e Novecento, dopo due apparizioni all’estero (Ginevra nel 2014 e Montecarlo nel 2016) il capolavoro di Alfredo Catalani torna ora a calcare i palcoscenici italiani in una coproduzione che vede alleati i teatri di Piacenza, Modena, Reggio Emilia e Lucca. Con la curiosità con cui ci si accosta a una primizia – una curiosità peraltro rintuzzata dalle indagini musicologiche condotte sull’opera da Emanuele Senici e da Riccardo Pecci –, abbiamo assistito alla rappresentazione tenutasi venerdì 24 marzo al Comunale di Modena.
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Nicola Berloffa firma una regia bella ed intelligente. Il paesaggio alpino in cui si snoda il dramma è un microcosmo di spazi angusti e relazioni ambigue. La natura selvaggia si stacca dal fondale e partecipa al dramma: la montagna e la neve, minacciose e opprimenti, incombono sugli uomini e sembrano condizionarne i caratteri e le azioni. I costumi anni Trenta diluiscono il folklore tirolese del libretto, e dotano l’opera di una patina cupa che a tratti ricorda le atmosfere angosciate del Von Trier di Dogville. Luci, arredi, movimenti scenici: tutto è curato fin nei particolari. E così, Berloffa e i suoi collaboratori dimostrano che la buona riuscita di un allestimento non dipende da scenografie imponenti o da letture dissacranti, bensì dalla capacità di immergersi nel testo operistico per estrarne, con gli strumenti adeguati, l’essenza musicale e drammatica.
La Wally è un’opera per direttori d’orchestra. Toscanini, Mahler, Gavazzeni, Muti: ognuno di essi, in epoche diverse, ha dichiarato la propria ammirazione per questo titolo, raffinatissimo dal punto di vista strumentale. A Modena la bacchetta è affidata a Francesco Ivan Ciampa, che mostra buona confidenza con il linguaggio musicale dell’opera italiana fin-de-siècle: il discorso sonoro scorre fluido, l’articolazione e le dinamiche sono curate, la ricchezza degli impasti timbrici svela le screziature di scuola francese dello stile di Catalani. Ciampa ha anche il merito di non compiacersi nei lussi della partitura, ma di badare a mantenere sempre serrate le file: sia l’eccellente Orchestra Regionale dell’Emilia Romagna che il Coro del Municipale di Piacenza rispondono a dovere al suo gesto eloquente.
La cura dello strumentale non basterebbe però ad assicurare il buon esito dello spettacolo. Per potersi reggere, infatti, La Wally richiede solisti dalle caratteristiche per molti versi eccezionali. Saioa Hernandez svetta nel ruolo eponimo: il soprano madrileno sfoggia timbro tondo e corposo, tecnica solida, fraseggio curato, dizione ottima. Anche a livello scenico la sua interpretazione merita elogi per l’espressività decisa e mai sbracata. Il coriaceo tenore Zoran Todorovich risolve in modo complessivamente soddisfacente la parte ingrata di Hagenbach: la voce non gli manca e la utilizza con generosità, anche se a scapito di fraseggio e dinamiche. Claudio Sgura è grintoso nei panni di Gellner (benché la sua gestualità risulti un po’ affettata), Giovanni Battista Parodi tratteggia uno Stromminger autorevole, mentre una brillante Serena Gamberoni rende credibile la parte piuttosto insipida di Walter.
Pur trattandosi di una “prima” il teatro non è colmo, ma al calare del sipario gli applausi sono convinti e calorosi. Chissà che questa riuscitissima produzione non stimoli altri teatri a riappropriarsi di un titolo così affascinante: se solo poche settimane fa un mostro sacro come Muti ha espresso il desiderio di ritornare alla Scala a braccetto della Wally, forse si può ben sperare.
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