di Luca Chierici foto © Brescia&Amisano
In una non tanto ipotetica identificazione tra alcuni grandi pianisti del nostro tempo e i cinque concerti per pianoforte e orchestra di Beethoven – l’esperimento era di fatto stato proposto da Claudio Abbado all’interno del suo ciclo Beethoven tenuto a Roma nell’oramai lontano 2001 – il cosiddetto “Imperatore” spetta di diritto a Maurizio Pollini, che a questa partitura si può dire abbia dedicato una vita intera. Dai primi exploit ancora precedenti l’epoca del Concorso Chopin del 1960 sino al concerto scaligero del 2011 a fianco di Daniel Barenboim, il pianista milanese non ha mai tradito una preferenza evidente per questo capolavoro che egli ha sempre affrontato con una grande passione interiore.
Per la presentazione viennese del quinto concerto, nel febbraio del 1812, Beethoven aveva richiesto la presenza del proprio ex-allievo Carl Czerny
Il Quinto concerto riesce a proiettare su scala universale i valori musicali e pianistici di tutta una tradizione recente che aveva trovato nel cosiddetto Militär-Konzert il veicolo ideale per l’esibizione pubblica dei grandi virtuosi, attingendo al nuovo bagaglio fatto di scale veloci, arpeggi, passaggi in ottave che facevano risuonare al meglio i pianoforti dell’epoca e ponevano il solista in diretta competizione con l’orchestra. Concerti appartenenti a quel genere di impostazione, ma molto più inclini ad esibire solamente un lato di brillantezza esteriore, usciranno dalle penne di molti contemporanei di Beethoven. Ma già il Mozart del Concerto K 503 aveva saputo pochi anni prima intuire quante e quali potenzialità espressive potessero nascondersi all’interno di una cornice brillante, di un discorso votato alla celebrazione di uno stile apparentemente privo di contrasti e di approfondimenti espressivi.
Per la presentazione viennese del quinto concerto, nel febbraio del 1812, Beethoven aveva richiesto la presenza del proprio ex-allievo Carl Czerny, lo stesso che undici anni prima era stato presentato al grande musicista con la speranza di poter intraprendere un ciclo di studi a largo raggio: non solamente il pianoforte ma una full-immersion che guidasse il giovane verso i traguardi della grande arte. E in quell’occasione il piccolo Carl aveva eseguito parti del Concerto K 503, sotto la guida divertita di Beethoven che commentava certi passaggi accennando con la mano sinistra alla parte orchestrale. È questo il sottile legame che unisce la grande musica e i protagonisti di un’epoca che ci sembra lontanissima e allo stesso tempo attuale, nel momento in cui il rito del concerto ci permette di riavvicinarci a una serie di valori oggi più che mai necessari per fronteggiare un presente alquanto cupo e apparentemente privo di saldi punti di riferimento.
Pollini ha da sempre interiorizzato il pianismo tipico di questo Beethoven del “secondo stile”, senza sottolinearne esageratamente il lato squisitamente brillante ma allo stesso tempo senza censurarne la gioiosa componente estroversa. Anzi, l’altra sera si è persino ascoltata una variante inedita nella maniera di porgere il disegno di arpeggi che ritorna nella seconda esposizione dell’incipit, un luogo dove per la prima volta sentivamo Pollini eseguire le figurazioni ornamentali come se si trattasse di una spontanea e felice improvvisazione. Nel corso dell’intero Concerto si è percepito anche un omaggio indiretto alle grandi personalità che a questo “Imperatore” erano strettamente legate, da Michelangeli a Rubinstein a Backhaus, tutti pianisti che hanno in diversa misura certamente rappresentato un modello artistico di riferimento, in particolare per quest’opera immensa, per il Pollini degli anni di formazione.
Forte di una collaborazione che in questo stesso repertorio era già stata sperimentata una decina d’anni fa nella cornice d’arte della città di Lipsia, Chailly ha assecondato ogni intenzione del pianista senza rinunciare a porre in risalto particolari orchestrali di estremo dettaglio. Vi è alla base dell’approccio di Pollini e di Chailly una lunga consuetudine all’analisi e al lavoro di prova, un lavoro lungo e faticoso che spesso non è noto al grande pubblico ma che testimonia da parte di questi artisti sia la curiosità verso i mille segni della partitura sia la volontà e la responsabilità di offrire un prodotto finale il più perfetto possibile, senza d’altro canto rinunciare alla magìa, al brivido della performance in sala.
Con l’esecuzione della Settima sinfonia op.92 la serata si è conclusa nel migliore dei modi. E qui oltre alla perfetta rispondenza da parte dell’orchestra, che si è davvero prodigata per venire incontro alle straordinarie esigenze del direttore, si è ammirata la sintesi messa in atto da Chailly a partire dalla lettura esatta ed entusiasta di un insieme di elementi che costituiscono l’ossatura, il significato profondo di un testo giustamente celebrato come uno dei massimi raggiungimenti dell’arte beethoveniana. Non si tratta solamente di fare i conti con una tradizione interpretativa che oramai da duecento anni si misura con il mito dell’apoteosi della danza o che tenta di trovare il “tempo giusto” per affrontare l’enigmatico Allegretto: il problema è integrare tutti questi elementi e molti altri ancora in una visione unitaria, consistente, “sostenibile” in quanto riprodotta in una grande sala con tutte le possibili incertezze delle leggi dell’acustica. La percezione di una velocità particolarmente elevata nella lettura dell’Allegretto era in realtà solo in parte derivante da ragioni metronomiche. Piuttosto Chailly è un direttore che in questo caso ha saputo sottolineare l’inesorabilità del discorso musicale senza nulla concedere a indugi o ad esitazioni, e questa scelta già di per sé dava l’impressione di una narrazione più stringata del solito. Raramente ci permettiamo di indicare un momento di raggiungimento assoluto nel contesto di musiche così tanto eseguite ed esplorate da direttori di ogni tipo ed estrazione, perché l’emozione dell’ultima esecuzione ascoltata può portare spesso ad emettere giudizi troppo entusiastici e in ultima analisi poco credibili. Però una Settima come quella dell’altra sera, non è davvero facile trovarla sul proprio cammino.