di Alberto Bosco foto © Javier del Real
Al pubblico del Teatro Real di Madrid è toccata la fortuna di scoprire per la prima volta il Billy Budd di Britten in una eccezionale produzione diretta scenicamente da Deborah Warner, così impeccabile dal punto di vista teatrale da far supporre che quest’opera sia da annoverare tra i capolavori di Britten, alla pari con Peter Grimes e il Giro di vite, meritando pertanto una diffusione assai maggiore. Non è un caso, quindi, visto il successo raccolto a Madrid, che lo spettacolo coprodotto con l’opera di Parigi sia già stato richiesto dai teatri di Helsinki e Roma, dove si potrà rivedere in futuro. Tutto in questa messa in scena funziona perfettamente: la direzione di Ivor Bolton, gli effetti di luce di Jean Kalman, le scene ridotte all’osso e perciò così cariche di forza simbolica di Michael Levine, la recitazione e il canto di tutti personaggi tra cui sarebbe superfluo cercare chi spiccasse data la coralità del tutto, il carattere epico e spettacolare dei cambi di scena e dei movimenti di massa e, infine, la regìa della Warner che asseconda così bene il carattere metafisico dell’opera, tratta dall’omonimo romanzo di Melville. Infatti, se l’ambiguità dell’attrazione omoerotica, la condanna della violenza e della guerra possono sembrare all’apparenza i temi principali dell’opera, in realtà come spesso accade in Britten, il vero problema affrontato è più universale.
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Dal secondo atto in poi, infatti, appare sempre più chiaro che i membri dell’equipaggio dell’«Indomitable» sono l’umanità coinvolta nella perenne lotta della vita, e che la condanna di Billy Budd obbedisce a quella crudele, ma inoppugnabile, legge divina, per cui il paradiso, che egli porta in sé e che rivela agli altri uomini, non ha modo di manifestarsi in terra se non per fugaci e sconvolgenti barlumi, destinati presto a essere travolti dalla realtà violenta e imperfetta che fa valere le sue prerogative. Così a poco a poco nell’opera si passa da un realismo a tratti anche pittoresco a un clima più astratto, in cui la vicenda si scioglie in metafora, in una allegoria dai sottintesi biblici che è in fin dei conti una variazione della celebre parabola del Grande Inquisitore di Dostoevskij.
La modernità dell’opera è proprio in questa sensazione di impotenza dei personaggi di fronte a un destino inevitabile: così Billy Budd accetta la sua sentenza di morte e il capitano Vere alla fine non si pente della sua titubanza nell’intervenire per salvare il marinaio condannato ingiustamente, poiché sente che è in presenza di una forza superiore cui sarebbe vano e presuntuoso opporsi, quella forza che è l’ordine delle cose di questa terra, di cui in fondo il cattivo Claggart è solo uno strumento (infatti sparisce di scena improvvisamente e per sempre una volta compiuto il suo tradimento). La chiave di quest’opera è quindi la coralità della vicenda, accentuata dall’uniformità delle sole voci maschili: i singoli individui, persino i tre protagonisti sono agiti e spinti da forze e situazioni che li trascendono, siano esse l’esuberanza fisica e il cameratismo dei giovani marinai sotto coperta, o l’esaltazione per la battaglia, o la legge metafisica che vieta alla bontà e alla purezza di avere la meglio nella realtà della vita.
Tutte cose compiutamente rappresentate ed espresse dalla musica di Britten, che avvolge i personaggi dall’esterno più che rappresentarne i moti intimi, e simboleggiate da quella nebbia misteriosa e mal augurante che avvolge tutti nel momento di svolta dell’intera vicenda. Da questo discende che i personaggi non sono responsabili delle proprie azioni, le ragioni delle quali non si trovano nel fondo dei loro cuori, ma in un disegno imperscrutabile che, volenti o nolenti, si compirà comunque. È per questo che due pagine, come il monologo di Claggart che chiude il prim’atto e quello tormentato di Vere immediatamente successivo alla sentenza di morte per Billy Budd, pur musicalmente ammirevoli, stonano nel contesto, perché sono una concessione allo psicologismo del melodramma ottocentesco. E lo stesso si potrebbe dire dello stile da musical americano con cui Britten ha deciso di raffigurare l’ingenuità del protagonista nella prima parte dell’opera, se non fosse che qui l’alterità della musica nel contesto corrisponde proprio a quella del personaggio nei confronti dei suoi simili.
Ma questi sono piccoli nei; oggi l’eclettismo, la facilità di scrittura e l’uso delle convenzioni melodrammatiche che gli avanguardisti del secolo scorso condannavano in Britten, non suonano più ipocriti e calcolati, ma si rivelano sempre più ingredienti innervati da un’autentica ispirazione artistica. Britten, infatti, scriveva le sue opere pensando alla società in cui viveva, si sentiva esponente di una tradizione musicale e culturale, quella inglese, di cui portò al compimento storico numerosi spunti e caratteri tipici, così come si inserì nella tradizione centenaria dell’opera senza rinnegarne le convenzioni e le formule (nel Billy Budd, chiarissimi sono i riferimenti a Wagner, all’Otello di Verdi, al Boris, al Wozzeck). Grazie a questa sua posizione oggi il suo teatro musicale è diventato un punto fermo del repertorio di tutto il mondo, un’acquisizione certa che produzioni memorabili come quella vista a Madrid in questi giorni non fanno che attestare.
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