di Monika Prusak foto © Foto Franco Lannino
È appeso a un filo il destino dei protagonisti della Norma belliniana, nella lettura dei due giovani registi siciliani di teatro di prosa, Luigi di Gangi e Ugo Giacomazzi, andata in scena al Teatro Massimo di Palermo in coproduzione con l’Arena Sferisterio di Macerata. Il palcoscenico si riempie di stoffe, fili, reti, nodi e telai – ispirazione tratta dalle opere dell’artista sarda Maria Lai –, ognuno usato in modo simbolico come il filo rosso che rappresenta lo scudo della divinità Irminsul e viene strappato da Norma per segnare l’inizio della guerra contro i romani. I telai giganti a forma di cerchio e riempiti di stoffe annodate creano lo sfondo fisso dell’azione: la scenografia di Federica Parolini, apparentemente semplice, produce effetti sorprendenti grazie ai giochi delle luci disegnate da Luigi Biondi.
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La regìa, che inizialmente sembra statica, svela un lavoro concentrato su di un altro piano, quello invisibile, ovvero sulla ricerca dentro il personaggio; un approccio che i registi importano con successo dal teatro di prosa. Il coro che vive di vita propria, si muove in scena al modo delle masse dei film, facendo risaltare i cangianti e meravigliosi costumi di Daniela Cernigliaro. In questa cornice simbolica in cui l’arte contemporanea, la recitazione e il canto si fondono e si completano a vicenda, il dramma dell’opera ci investe maggiormente, rendendo il racconto racchiuso nel libretto di Felice Romani sorprendentemente attuale se non universale.
Sul podio, Gabriele Ferro sceglie di collocare l’orchestra al livello del palcoscenico, inserendola dentro lo spazio scenico e facendola sentire più presente nell’azione dell’opera. Ciò fa risaltare le armonie che spesso si perdono nell’esecuzione tradizionale, permettendo di gestire al meglio le dinamiche nelle parti dell’insieme. Sin dall’inizio l’orchestra lavora attentamente sui timbri: Ferro cura con precisione le parti di assolo, come quella del flauto nell’introduzione a Casta Diva, che crea un’atmosfera magica continuata poi dalla protagonista. La vicinanza del direttore migliora notevolmente l’esecuzione del coro, pronto e sincronizzato, sicuro anche nell’intonazione, ma quello che incanta di più sono le parti soliste che acquisiscono in questa impostazione un carattere più intimo e veritiero.
Mancano le parole per descrivere la purezza della voce di Mariella Devia, cristallina e scorrevole, come se non ci fosse nessuno sforzo dietro quelle agilità nel registro acuto e come se l’età fosse soltanto un fatto anagrafico. La sua Norma è giovane, distinta e fragile: una “casta diva”, che sotto uno scudo di apparente fermezza nasconde femminilità estrema, senso materno ed empatia. La maturità del ruolo fa sì che l’idea registica viene svelata con doppia forza. La linearità del personaggio ci spiazza insieme a Pollione nella sua trasparenza e verità. Accanto a lei c’è un’altra donna delicata ed elegante, Adalgisa interpretata con particolare trasporto dal soprano Carmela Remigio. La scelta di un soprano per questo ruolo, che rispecchia la preferenza dello stesso Bellini, è un’operazione di notevole efficacia. Le due donne sembrano fatte dello stessa stoffa, si comprendono in maniera totale, donando allo spettatore dialoghi sublimi di estrema bellezza, intimi e coinvolgenti.
La voce di Carmela Remigio è tecnicamente perfetta, suadente e lirica, per cui i due soprani si integrano con maestria, traendo visibile piacere dalla performance e trasmettendolo al pubblico. Il tenore statunitense John Osborn è un Pollione autentico. Dotato di una voce chiara e agile, si muove in scena in maniera naturale e convincente, rendendo il personaggio positivo e facendo riconoscere a Norma l’autenticità della sua storia con Adalgisa. Risulta particolarmente toccante la trasformazione finale di Pollione e il rimorso che lo porta a morire insieme a Norma nell’«amor rinato». Completano il cast Oroveso di Luca Tittoto, possente e autorevole padre e capo sia per quanto riguarda la vocalità sia per la presenza scenica, e Clotilde di Maria Mirò, una voce ricca ed elegante, che lascia il segno anche per la naturalezza della recitazione. Una nota va a Manuel Pierattelli in Flavio, che accompagna il suo amico Pollione in maniera disinvolta e convincente.
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