di Luca Chierici foto © Brescia&Amisano
Un notevole successo, per nulla adombrato da qualche disapprovazione mirata e calcolata durante lo svolgimento dello spettacolo e come al solito ripresa in uno spiacevole battibecco finale tra certi loggionisti e il pubblico che loro rispondeva dalla platea: questa la cronaca della serata che doveva riparare – e ha in effetti riparato – il torto di una assenza de La gazza ladra dal Teatro alla Scala durata quasi cento e ottanta anni. Un periodo di vuoto che spesso fa seguito a stagioni di ampio consenso, come quelle che avevano caratterizzato la presenza del capolavoro rossiniano nella nostra città tra il 1817 e il 1842.
Artefice di questa ripresa è stato Riccardo Chailly, che si è speso in un lungo e profondo lavoro di concertazione con l’entusiasmo che ha sempre caratterizzato in lui lo studio dei grandi capolavori del passato. L’esecuzione di ieri sera ha tra le altre cose riconfermato la grandezza di questo singolare momento del percorso artistico di Rossini, grandezza che in tempi moderni era certamente già nota a coloro che avevano almeno assistito a una importante recupero avvenuto a Pesaro quasi trent’anni fa da parte di Gianluigi Gelmetti. In quell’occasione si era utilizzata l’edizione critica curata dal recentemente scomparso Alberto Zedda (cui la serata di ieri era dedicata) e si era potuto contare su una generazione di cantanti rossiniani di primo piano.
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Ma il lavoro di Chailly ha avuto il merito di proseguire ben oltre nell’analisi del testo e nel sottolineare straordinarie anticipazioni che si udranno negli anni a venire in molti momenti cruciali del comporre rossiniano e non solo: straordinaria ci è parsa ad esempio l’anticipazione di impianto e di caratteri che esiste tra la grande marcia funebre che apre il finale secondo e l’incipit della Symphonie funèbre et triomphale scritta da Berlioz ben ventitré anni più tardi, per non parlare di somiglianze con certi stilemi che arricchiranno la musica seria rossiniana dello Stabat Mater o della Petite messe solennelle. E ancora spunti melodici che verranno trasportati di lì a poco nel Mosé o più tardi nel Viaggio a Reims (si noti la straordinaria somiglianza d’impianto tra il quintetto “a cappella” e il grande concertato a voci sole di quest’ultima opera, ai tempi rivelata al pubblico da Claudio Abbado). La grande musica, e un consapevole scavo interpretativo, rivelano sempre il flusso inarrestabile della circolazione di idee anche in epoche diverse. E ciò che si è intravisto in questo riascolto della Gazza ladra è riuscito ad estendere ancora di più la valenza di un’opera di per sé importantissima, non solamente nel contesto dell’evoluzione del pensiero dell’autore.
Naturalmente particolare importanza ha in questo caso la tradizione della cosiddetta pièce à sauvetage che aveva caratterizzato tra la fine del ’700 e i primi anni dell’800 lavori importantissimi come il Fidelio di Beethoven o la Lodoiska di Cherubini. Nel caso della Gazza ladra la vicenda assume i connotati di un dramma che si scioglie con l’arrivo della notizia della liberazione del padre di Ninetta e con il ritrovamento della refurtiva rubata dal volatile. E certamente si potrebbe avanzare un paragone tra la figura del Podestà e quella di Pizarro o del barone Dourlinski nelle rispettive opere di Beethoven e Cherubini.
La gazza ladra sperimentò, nei venticinque anni di presenza ottocentesca alla Scala, il succedersi di almeno due generazioni di cantanti rossiniani, così come diverse furono le generazioni di vocalisti che si impegnarono in quest’opera fin dai tempi pionieristici di Wexford e in maggior misura a partire dai primi esperimenti di Zedda (a Roma, nel 1973) che precedettero l’edizione critica. La compagnia di canto che ha dato vita alla Gazza in questo 2017 non ha sfigurato nei confronti di un recente passato glorioso (del passato remoto nessuno può giudicare se non attraverso la lettura dei resoconti d’epoca) e ha contribuito in gran parte alla riuscita del progetto. Dal punto di vista strettamente vocale si sono ammirate la stentorea presenza di Alex Esposito nei panni di Fernando, la collaudatissima preparazione rossiniana di Edgardo Rocha, la prestazione a tutto tondo di un’artista come Rosa Feola, Ninetta di grande spessore, oltre alla impressionante partecipazione di un veterano come Michele Pertusi. Ma di notevole valore si sono rivelati essere Teresa Iervolino (Lucia), Serena Malfi (Pippo) Paolo Bordogna (Fabrizio) e i comprimari tutti.
Lo spettacolo di Salvatores e Fercioni era ben congegnato, soprattutto per la scelta di affidare il “ruolo” della gazza alla straordinaria acrobata Francesca Alberti, che ha tenuto la sala con il fiato sospeso ,soprattutto durante l’esecuzione dell’immortale Sinfonia, a causa degli azzardatissimi “voli” che la impegnavano lungo tutta l’estensione degli enormi spazi scaligeri. A lei sono stati tributati applausi incontenibili sia al termine della sinfonia stessa che alla conclusione dell’opera. Più problematica era la presenza delle marionette di Colla, che commentavano le diverse scene con interventi che si erano in parte già visti e che illuminavano veramente il contesto solamente all’inizio, quando si verificava quel magico effetto secondo il quale queste riproduzioni prendono per un attimo il sopravvento sui personaggi reali. Non tutto era perfettamente funzionale al contesto, si sarebbe preferita una “sottrazione” piuttosto che una amplificazione di elementi, ma tutto sommato l’operazione registica e scenica ha avuto il pregio di proporre delle idee (è difficilissimo oramai introdurre novità assolute anche in questo tipo di mestiere) e di sostenerle con coerenza fino alla fine. Un plauso particolare, infine, al coro istruito da Casoni e all’eccellente fortepianista che ha accompagnato con notevole fantasia strumentale i recitativi secchi.
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