di Luca Chierici
Alexander Lonquich rappresenta oggi in un certo senso un oggetto di culto per le giovani generazioni di pianisti, che giustamente ammirano in lui l’artista colto e riflessivo, l’interprete raffinato e partecipe di un repertorio assai vasto che va da Bach a Rihm. Ma la figura di Lonquich è a mio parere ancor più da tenere in considerazione oggi per almeno due motivi. Innanzitutto la sua tenuta concertistica ancora invidiabile, che non conosce problemi di memoria e concentrazione, che gli consente di esibire una tavolozza di colori e una ricchissima gamma di sfumature, essenziali per immergersi nel pianoforte classico e ancor più in quel banco di prova difficilissimo che è la letteratura schumanniana, in cui mezze voci, motivi nascosti, accenni ricorrenti vanno scovati con grande intelligenza e fatti emergere con sapiente delicatezza.
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Ma forse ai più giovani sfugge una qualità che oggi non è più di moda e che nello sviluppo della carriera di Lonquich ha avuto una importanza fondamentale. Il giovane Lonquich, che seguiamo almeno dal 1978, anno della sua vittoria al Casagrande, era un pianista dalle doti musicali enormi (si parla di doti musicali, non solamente di numero di note eseguite nell’unità di tempo o di vuoti narcisismi) che si è costruito un’ottima carriera con una pazienza incredibile, con un fermo convincimento non tanto nella propria bravura quanto nella profondità, nell’importanza della musica da lui eseguita. E con un grande affetto e rispetto verso artisti anagraficamente più avanti con l’età, con cui ebbe il privilegio di condividere tanti momenti musicali che si ricordano con struggimento. Il Lonquich che suonava a Milano le Goldberg di Bach, l’Hammerklavier e le Diabelli, la Suite 1922 di Hindemith , i Concerti di Mozart o le Sonate di Schubert era lo stesso che faceva musica assieme a Nikita Magaloff (che lo considerava uno dei migliori pianisti in circolazione, e che per lui provava un affetto paterno) nel “doppio” di Mozart e con Badura-Skoda e Demus nel “triplo” alla Scala , che suonava il Triplo concerto di Beethoven con Abbado a Ferrara, che seguiva i consigli di Sandor Vegh. E il tutto non con opportunistica piaggeria ma con la convinzione che tanto vi era da imparare da artisti che avevano trascorso una lunga vita a contatto con la musica.
E Lonquich è un pianista che ha dato giustamente enorme importanza alla sua partecipazione all’interno di complessi cameristici, fin dai tempi di Asciolla e Filippini o della Meyer e di Pietro Borgonovo, o di Joshua Bell e di Frank Peter Zimmermann – memorabili i recital dei due alle Serate Musicali nel 1989-90 – approfondendo il repertorio e i propri interessi soprattutto negli anni successivi durante la sua intensissima attività in Austria e Germania. Un artista che aveva dalla sua una grande sensibilità personale, certamente, ma che ha anche saputo assimilare con intelligenza tutto quanto poteva attraversare la propria strada in termini di conoscenze musicali e collaborazioni di prestigio.
Senza questo background non è possibile riportare alla luce con esiti di grande bellezza la Sonata D 958 di Schubert (Lonquich l’aveva forse sotto le mani dai tempi del “Casagrande”), i Davidsbündler di Schumann, le Bagatelle op.126 di Beethoven che costituivano l’ossatura del programma dell’altra sera per le Serate Musicali. Programma che avevamo ascoltato anche in passato, che oggi appariva ancor di più proiettato in un contesto di bellezza e di poesia ovviamente possibile grazie anche alla raggiunta maturità anagrafica e che ha permesso all’uditorio di concentrarsi quasi esclusivamente sulla musica che veniva eseguita (sembra strano, ma è oggi un grande complimento) e non sulla figura o sulle “grimaces” dell’artista, o sul vestito del voltapagine. Con altrettanto grande sensibilità Lonquich ha dedicato un bis al secondo movimento di una straziante sonata di Gideon Klein, scritta in un campo di concentramento nazista.
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